Del 13 maggio 1974 ho un ricordo stupendo e indelebile. I seggi si erano chiusi alle 14, e nel tardo pomeriggio ci trovammo, eravamo davvero tanti compagni e compagne, nel parco adiacente la Palazzina Liberty occupata dal collettivo La comune di Dario Fo e Franca Rame.
Dario Fo, al microfono, rilanciava i numeri dei voti trasmessi dalla radio, alternandoli a battute satiriche su Fanfani e Almirante. A ogni dato favorevole al NO, erano urla di gioia, salti, abbracci, mentre quando i SI prevalevano in alcune città, erano boati di disapprovazione e di rabbia.
Quando però, verso le 23, fu chiaro che ormai il NO aveva vinto, e largamente, cominciò la grande festa. Un fiume umano imboccò Corso XXII marzo sino a Piazza del Duomo e poi la galleria Vittorio Emanuele, Piazza della Scala… tutto il centro di Milano era zeppo di persone in festa.
I compagni e le compagne erano impazziti di gioia, si abbracciavano, si baciavano, si congratulavano per la vittoria, urlavano sfottò a Fanfani e a Gabrio Lombardi, presidente del Comitato per il SI.
Qualche compagno, a rischio di rompersi le ossa, si arrampicava sui lampioni della luce per staccare gli striscioni democristiani stesi tra i lati delle strade. Nessuno voleva tornare a casa, in quella bella, calda notte di maggio e la festa continuò sino all’alba.
Per la prima volta dalla Liberazione la Democrazia Cristiana era stata sconfitta.
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Il 12 e 13 maggio 1974 si tenne il primo referendum abrogativo della storia repubblicana. In discussione era l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, approvata dalla Camera il primo dicembre 1970. L’iter parlamentare della legge fu abbastanza rapido, poiché il deputato socialista Loris Fortuna aveva depositato il progetto di cui era promotore durante la prima seduta della nuova camera dei deputati il 5 giugno 1968.
Tale progetto era firmato da un nutrito gruppo di deputati dei partiti di sinistra, PSI, PCI e PSIUP e fu in seguito unificato con un’analoga proposta di un gruppo di liberali, primo firmatario Antonio Baslini.
La seduta del 5 giugno 1968 vide tra l’altro l’elezione a presidente della camera di Sandro Pertini, la presentazione da parte di Pietro Ingrao della proposta di voto ai diciottenni, e la riproposizione della formazione di una commissione d’inchiesta sull’emigrazione, già avanzata nel 1964, firmata dall’on. Luzzatto e da altri esponenti del PSIUP. L’Italia era ancora un paese con milioni di emigranti.
La relativa rapidità dell’iter parlamentare non significa che la legge non fosse stata contrastata, La sua approvazione avvenne infatti alle cinque del mattino, al termine di una seduta protrattasi 19 ore. Votarono a favore 319 deputati contro 286. Anche al Senato la maggioranza non fu ampia; 319 si e 286 no. L’alta presenza in aula, inoltre, testimonia l’asprezza dello scontro sulla legge a cui si opponevano tenacemente la DC e i neofascisti del MSI.
Prima d’allora, il tema del divorzio era arrivato in Parlamento dodici volte, ma senza successo. Già nel 1902 il governo Zanardelli aveva presentato una proposta di legge che prevedeva il divorzio in caso di sevizie, condanne gravi e adulterio che ottenne solo tredici voti favorevoli su quattrocento.
Dopo il fascismo, il socialista Luigi Renato Sansone propose nel 1954 e poi nel 1958 una sorta di “piccolo divorzio” limitato ad alcuni casi gravi, ma la legge non fu nemmeno discussa. Anche in sede di Costituente, peraltro, non era stato facile far accettare alla DC che nell’art. 29 delle Costituzione il matrimonio non fosse indicato come indissolubile.
La DC, attraverso l’impegno di esponenti cattolici a lei legati, come l’ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, il filosofo Augusto Del Noce, il giurista Gabrio Lombardi, formò un Comitato nazionale per il referendum sul divorzio che, entro il giugno 1971, raccolse ben 1.370.134 firme in calce alla proposta.
Un numero di firme così alto fece credere ai promotori che la vittoria fosse certa. Ma le cose non andarono in quel modo, il 12 e 13 maggio 1974 il 59,26% degli italiani votò NO all’abrogazione del divorzio.
Guardando alla distribuzione regionale dei voti, in tutto il centro-nord tranne che in Veneto e in Trentino prevalse il NO mentre il SI vinse in Molise, Puglia, Basilicata, Campania e Calabria. Molto significativa la vittoria dei NO in Sicilia e in Sardegna, a testimonianza dello sgretolarsi di poteri atavici, soprattutto grazie all’impegno delle donne.
Nell’analisi dei dati regionali, peraltro, va considerata anche l’immigrazione interna, che aveva portato molti giovani lavoratori del sud nelle regioni settentrionali, in cui erano spesso diventati punto di forza delle lotte operaie, nelle quali avevano maturato concezioni avanzate anche su temi come la famiglia,
La vittoria del NO era il segno di un’Italia che cambiava. Il sessantotto aveva portato con sé una nuova visione dei rapporti familiari, il rifiuto dell’autoritarismo familistico e patriarcale, che andava di pari passo alla contestazione dei rapporti autoritari sui luoghi di lavoro e nella scuola. Era nata anche una nuova visione dei rapporti tra i generi.
Tutto ciò, va ricordato, era associato ai veri e propri drammi vissuti da centinaia di migliaia di coppie “irregolari” che vivevano situazioni di semiclandestinità, Il reato di adulterio, che penalizzava quasi sempre le donne, era stato cancellato solo nel 1968.
La totale riconsiderazione dei rapporti familiari e tra i sessi portata dal divorzio fu anche una leva importante per la messa in discussione dell’arcaico istituto del “delitto d’onore”, cioè la forte riduzione di pena a cui aveva diritto chi uccidesse il coniuge – che poi era in pratica sempre la coniuge – ma anche la sorella o la figlia che avessero disonorato la famiglia allacciando una “illegittima relazione carnale”. Insomma, un diritto di proprietà, con possibilità di decidere vita o morte, sulle donne della famiglia.
L’articolo 587 del Codice penale ereditato dal fascismo. relativo a questo obbrobrio giuridico, fu sempre meno applicato nei tribunali dopo l’approvazione del divorzio, del nuovo diritto di famiglia del 1975 e della legge 194 sull’aborto, sino alla sua cancellazione avvenuta nel 1981.
Una delle motivazioni contro il divorzio, portate in parlamento dalla deputata democristiana Maria Eletta Martini, relatrice di minoranza, fu quella che le donne erano economicamente più fragili e che la possibilità del divorzio le avrebbe messe in grande difficoltà.
Anche questa argomentazione, nella sua verità, fu ribaltata dal movimento delle donne. Non era giusto continuare ad accettare le catene perché si era deboli, piuttosto era necessario cambiare le condizioni e i salari nel mondo del lavoro, verso l’eguaglianza tra uomini e donne.
Il referendum del 12 maggio 1974 scosse profondamente i rapporti tra i sessi, verso la parità in famiglia e sul lavoro, e questo non può essere considerato solo un fatto di diritti civili, bensì di lotta di classe, visto che sin dagli scritti di Marx tale contraddizione ne è considerata uno dei terreni fondamentali
Più in generale credo sia sbagliato ciò che si è letto molte volte, vale a dire che la vittoria nel referendum del 12 maggio 1974 abbia costituito un avanzamento sul piano dei diritti civili, che non trovò altrettanto riscontro sul terreno sociale. Fatto salvo che negli anni settanta questa distinzione non era pertinente, il referendum sul divorzio deve essere inquadrato in un decennio in cui i due piani correvano, come è giusto, paralleli. Quindi, in quella battaglia, si affermarono diritti sociali ed egualmente civili come è per esempio la parità tra uomo e donna in famiglia e sul lavoro.
Gli anni settanta non furono, come molti tendono oggi a narrarli, anni “di piombo” bensì anni di grandi conquiste dei lavoratori e del movimento popolare sull’onda dei forti movimenti studenteschi e in seguito operai del 1968 e 1969, seguiti poi dal movimento del 77. Movimenti che avevano veramente messo alle corde la borghesia italiana, che, stretta dall’alleanza tra movimento operaio e studentesco e dallo schierarsi con loro della piccola borghesia impiegatizia, aveva dovuto arretrare su molte e importanti questioni.
Nel 1970 fu approvato lo Statuto dei lavoratori, una legge certamente di mediazione politico-sindacale, non completamente soddisfacente (tanto che PCI e PSIUP si astennero dall’approvarla) ma che sancì comunque una serie di diritti importanti, contenendo per esempio il famoso articolo 18 diventato uno dei grandi punti di battaglia politica degli ultimi venti anni Inoltre in quella legge fu riconosciuto il diritto all’istruzione per i lavoratori, con l’istituzione delle 150 ore, una conquista che usciva dal semplice terreno della lotta sindacale in fabbrica, per porsi su quello più generale dei diritti sociopolitici.
Inoltre, gli anni settanta furono costellati da molte altre lotte e conquiste, come le battaglie sulla questione della salute in fabbrica, ancora oggi tanto attuali, che trovarono in quel decennio la loro nascita. Il movimento operaio usciva dalla semplice rivendicazione salariale o sull’orario di lavoro per affrontare questioni più generali, come la salute oppure la casa. Si poneva così la questione della gestione e delle regole della società nel suo complesso.
La lotta sui temi della salute trovò un approdo significativo nell’istituzione, nel dicembre del 1978, del Sistema Sanitario Nazionale, in seguito purtroppo regionalizzato, ed entrato in collaborazione con il privato. con le conseguenze di cui oggi ci rendiamo conto. Pochi mesi prima, la cosiddetta “Legge Basaglia” aveva chiuso i manicomi, incubo non solo sanitario, ma anche politico, perché luoghi di repressione di comportamenti non accettati nella società borghese.
Intanto, nel maggio del 1978, era stata approvata anche la legge sull’aborto. Una legge non esente da limiti quale l’obiezione di coscienza concessa ai medici, ma che affermò il principio generale della gravidanza come scelta esclusiva della donna. Un passo avanti decisivo a cui in seguito la DC si oppose con un altro referendum tenuto nel 1981 che la portò alla seconda bruciante sconfitta referendaria.
Il segretario della DC, Fanfani, aveva previsto già durante la campagna referendaria del 1974 i possibili effetti a cascata di una vittoria del NO quando aveva affermato: “Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!”
Il referendum del 1974 portò con sé anche una definitiva scomposizione del mondo cattolico, di cui la DC perse il monopolio della rappresentanza Se già dal 1968 i fermenti di rottura dei cattolici progressisti con la DC erano evidenti (lo testimonia, per esempio, la costituzione, anche se non fortunata, del Movimento Politico dei Lavoratori di Livio Labor) il referendum sul divorzio ne fu la sanzione.
Infatti, se Comunione e Liberazione fu attivissima per il SI, molti altri cattolici come Pietro Scoppola, Pierre Carniti, Raniero La Valle e Adriana Zarri rifiutarono di sottomettersi alle gerarchie ecclesiastiche. Il caso più eclatante fu quello di don Giovanni Franzoni, abate della Basilica Ostiense, sospeso a divinis per avere preso posizione pubblica a favore del divorzio. A Venezia, il Patriarca Albino Luciani, futuro papa, sciolse la FUCI, associazione degli universitari cattolici, che si era dichiarata a favore del divorzio.
Tutto ciò servì a chiarire che la DC non era più, se mai lo era stata, rappresentante di tutti i cattolici. Una realtà che purtroppo il PCI, come sappiamo, sottovalutava nella sua costante ricerca di mediazione con la DC.
La distorsione della visione gramsciana dei rapporti tra comunisti e cattolici ha caratterizzato il PCI nel dopoguerra sino alla teorizzazione del compromesso storico, Relativamente al tema di cui ci occupiamo, il PCI non aveva compreso nemmeno il valore e l’importanza del movimento del 68 e la sua forza dirompente sull’assetto dei rapporti tradizionali e autoritari nella società e anche all’interno della famiglia.
Il referendum del maggio 1974 deve quindi essere ricordato come una tappa di una lunga serie di lotte che costellarono oltre un decennio di storia italiana cambiandone profondamente molti aspetti politici e sociali e anche come un momento decisivo della crisi dell’egemonia democristiana in Italia.
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Alice Gatto
Un po’ di verità storica che mi conforta del presente