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Lo scudo di Confindustria e la salute dei lavoratori

Dopo le continue pressioni per le riaperture immediate delle fabbriche, gli industriali italiani se la prendono ora con la norma che include il contagio da Coronavirus sul posto di lavoro come fattispecie soggetta alla tutela prevista dalle norme antinfortunistiche dell’Inail, l’Istituto Nazionale infortuni sul lavoro. 

L’articolo 42 del decreto Cura Italia, al comma 2, prevede infatti che se un lavoratore viene contagiato dal Coronavirus, in analogia con tutte le situazioni epidemiche, il caso sarà iscritto nel registro dell’Inail come infortunio sul lavoro. Chi risulta positivo al contagio, pertanto, ha accesso a tutte le tutele del caso.

L’assenza dal lavoro per quarantena o isolamento domiciliare – e l’assenza successiva, dovuta all’eventuale prolungamento della malattia – viene considerata come periodo di inabilità temporanea assoluta, indennizzato dall’Inail.

Questa norma ha avuto e ha validità non solo per il personale medico e infermieristico, senza dubbio il più esposto, ma anche per tutte le attività che comportano il costante contatto con il pubblico, come nel caso di farmacisti, cassieri o camerieri. In questa fattispecie, la norma non prevede la necessità di accertamenti medici, presumendo a priori che il contagio sia avvenuto sul luogo di lavoro.

Tale norma vale inoltre anche per tutti i lavoratori che non svolgono attività a contatto con il pubblico, ma in questo caso la situazione viene sottoposta all’ordinario iter di accertamento medico-legale a carico dell’Inail, per verificare che l’esposizione al virus sia effettivamente avvenuta durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Per i familiari dei lavoratori deceduti a causa del Coronavirus contratto sul lavoro, l’Inail prevede il versamento della rendita, dell’assegno funerario e dell’una tantum in carico al “fondo gravi vittime infortuni sul lavoro“.

Quest’ultima prestazione spetta anche ai familiari dei lavoratori deceduti per infortunio sul lavoro non assicurati presso l’Inail, come ad esempio i medici non iscritti all’Inail, i militari, i vigili del fuoco, le forze di polizia e i liberi professionisti.

Naturalmente, come per tutti gli infortuni sul lavoro, esiste una responsabilità giuridica del datore di lavoro, il quale a priori è tenuto a rispettare tutte le norme legate alla sicurezza, che nel caso della pandemia da Covid-19 consistono nell’assunzione di tutte le precauzioni previste per legge (obbligo di uso di mascherina, guanti, distanziamento interpersonale).

Il lavoratore contagiato può quindi rivalersi, tramite l’Inail, sul datore di lavoro qualora, naturalmente, quest’ultimo non abbia rispettato la normativa vigente.

La norma configura dunque uno strumento giuslavoristico ordinario che garantisce civiltà e che – come ricorda il direttore generale dell’INAIL – risulterebbe persino ovvia, secondo una prassi consolidata da cento anni per cui il contagio da epidemia sul luogo di lavoro rientra nella casistica dell’infortunio.

È evidente che la dimostrazione dell’avvenuto contagio sul luogo di lavoro può non risultare semplice e ciò può dare luogo a contenziosi complessi. Ciò tuttavia non toglie che la norma sia una sacrosanta applicazione del principio di responsabilità a tutela dei lavoratori, tanto più in un contesto in cui la prosecuzione dell’attività in piena pandemia ha rappresentato, nei due mesi di chiusura del paese, un rischio con forti ripercussioni sociali, assunto da parte degli imprenditori che hanno continuato a produrre. Un imprenditore che ha rispettato e rispetta scrupolosamente le norme, del resto, non ha nulla da temere.

Ebbene, di fronte a questa sacrosanta norma si assiste da diverse settimane alla levata di scudi degli industriali italiani. Tra le più recenti esternazioni al riguardo, quella di Giuseppe Pasini, presidente del gruppo Feralpi e produttore di acciaio, che ha affermato pochi giorni fa che la norma sarebbe gravissima e dettata da un sentimento anti-impresa, reclamando di fatto la rimozione completa della tutela Inail in caso di contagio da Coronavirus.

Pasini non è uno qualunque: ad oggi è il leader dell’Associazione Industriale Bresciana (AIB), ossia di un’associazione territoriale di categoria tra le più importanti, in una delle province italiane più colpite dal virus. Non a caso, è stato uno dei candidati nell’ultima corsa alla presidenza di Confindustria. 

Gli fanno eco altri imprenditori, così come consulenti d’impresa e consulenti del lavoro, che rilevano come i numerosi contenziosi legali che potrebbero aprirsi rappresenterebbero per le imprese un costo insostenibile in questa fase e che quindi occorre uno scudo penale che le protegga da questo rischio.

Quanto meno, sostengono alcuni, uno scudo penale da applicare a quelle imprese che abbiano adottato a priori le norme di sicurezza previste.

Lo stesso direttore dell’Inail, fresco di rinnovo del mandato, prima difensore della norma contro le sparate di Pasini, su questa ipotesi meno drastica si è dichiarato sostanzialmente favorevole, affermando che “non sembra una scelta irragionevole”. 

Ma perché accanirsi così tanto su una simile norma? Più che il timore di contenziosi o di oggettive complicazioni legate alla fase probatoria (dove si raccolgono le prove necessarie ad accertare l’origine del contagio e l’eventuale colpevolezza del datore di lavoro) è ragionevole pensare che la più grande paura dei padroni di fabbriche e fabbrichette nasca piuttosto dalla coscienza sporca da parte di molti per non aver attuato affatto tutte quelle misure di sicurezza previste dai decreti governativi.

Nei mesi di marzo e aprile del resto si sono moltiplicate le azioni di protesta, gli scioperi e le richieste da parte dei delegati sindacali di rispetto di norme che venivano candidamente eluse da parte di numerose imprese per poter continuare a produrre e macinare profitti senza intralci.

Ora, a danni fatti, con ben 37.000 contagiati sui luoghi di lavoro (dati Inail aggiornati al 4 maggio) si invoca lo scudo penale, dando grottesca rappresentazione ad un indegno insulto rivolto a tutti coloro che per continuare a lavorare si sono ammalati e in alcuni casi hanno perso la vita.

Dopo i danni inflitti dall’austerità alla sanità pubblica e lo sfruttamento sistematico del lavoro nei campi del settore agricolo, ecco l’ennesimo risvolto che la crisi mette in piena luce: la sempre verde ostilità degli imprenditori alle spese per la sicurezza sul lavoro, che si manifesta in tempi ordinari, così come in situazioni emergenziali.

Per l’ennesima volta dall’inizio della pandemia, padroni e padroncini dimostrano nitidamente che quando la salute dei propri dipendenti è incompatibile coi profitti dell’azienda sono disposti a sacrificarla, senza pensarci due volte.

 

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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