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La scuola nel Pnrr

Dalla lettura delle trenta pagine del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dedicate alla Missione 4 – Istruzione e Ricerca si riceve un’impressione generale sull’orientamento del governo molto precisa: ci si avvia a una scuola che accoglie come primarie le esigenze delle imprese, nel quadro di una formazione “professionalizzante” di stampo fortemente tecnocratico.

In tutte quelle trenta pagine non vi è mai un riferimento al compito fondamentale della scuola, cioè la formazione di cittadini consapevoli e critici, responsabili della loro partecipazione alla vita sociale democratica del paese, né tantomeno ai compiti di promozione e di emancipazione che le assegna la Costituzione.

Per quanto riguarda i saperi, non se ne trova traccia, a tutto vantaggio delle competenze, vale a dire della formazione di mano d’opera flessibile e “impiegabile” in compiti diversi in base alle mutevoli esigenze del mercato del lavoro, imprevedibili a medio-lungo termine.

Le pagine dedicate all’Istruzione si aprono con un esame della situazione della scuola e della ricerca dai toni assai negativi. Anzitutto si rileva il bisogno delle famiglie di avere una scuola primaria a tempo pieno, dimenticando però che essa già esisteva in molte regioni e fu distrutta dall’attuale ministra degli Affari Regionali, Maria Stella Gelmini, quando reggeva il dicastero dell’Istruzione, che proprio con lei perse l’aggettivo di pubblica.

Nel PNRR si denunciano gli alti tassi di abbandono scolastico, la bassa percentuale di laureati italiani, l’esiguità del numero dei dottorati e quindi della ricerca. Naturalmente tutto ciò è dovuto soprattutto al definanziamento del settore negli ultimi venti anni E alla crisi del capitalismo, ma viene invece presentata come causa presunta l’”arretratezza” del sistema di scuola e formazione pubblico, che dovrebbe essere profondamente cambiato.

Questo è un vecchio ritornello della UE e dell’OCSE che da vent’anni tagliano i finanziamenti al sistema pubblico, invocando invece delle controriforme istituzionali di stampo privatistico e aziendalistico.

Infine, si denuncia il mismatch (più semplicemente lo scarto, la non corrispondenza) tra istruzione e domanda di lavoro, ed è questo che chiarisce il progetto di Draghi e del suo governo: preparare al mercato del lavoro e non formare cittadini attivi, colti e responsabili.

Le azioni che sono proposte nel documento sono tutte orientate a una visione tecnocratica e aziendalista dell’insegnamento e della scuola e dei rapporti di lavoro che si instaurano al suo interno. A questo proposito, nel documento si parla del rafforzamento dell’uso dei test INVALSI e PISA, che stratificano e gerarchizzano le scuole e i diversi territori tra loro, in base a domande cervellotiche e nozionistiche che poco hanno a che vedere con i veri saperi, che non si valutano con i quiz.

Tali misurazioni si propongono di rilevare i divari territoriali, ma è significativo che le scuole che riportano livelli di prestazione “critici” saranno, per almeno un biennio, commissariate di fatto da tutor esterni e docenti che “supporteranno” dirigenti e insegnanti, sottoposti a mentoring e formazione obbligatoria (anche da remoto). In pratica, un commissariamento esterno degli istituti meno brillanti nei test INVALSI.

A questo proposito, è da notare come l’introduzione coatta di tali test abbia condizionato la didattica delle scuole, che sottraendo ore di lezione per la preparazione agli stessi, per non ottenere esiti poco lusinghieri. Un effetto di retroazione dei test INVALSI sui metodi e contenuti d’insegnamento che, in caso di “commissariamento” delle scuole che hanno risultati mediocri alle prove INVALSI potrebbe potenziarsi con risultati devastanti sull’insegnamento/apprendimento.

La pratica dei “commissariamenti”, peraltro, era già stata proposta all’inizio del secolo da Roger Abravanel, manager licenziatore già in forza alla Mc Kinsey, diventato in seguito consulente in meritocrazia della ministra Gelmini. Costui proponeva persino che, se dopo un paio d’anni le scuole non avessero migliorato i loro risultati, fossero chiuse. Per fortuna, ai tempi, la proposta non ebbe esito pratico, ma ora riemerge.

In ogni caso, per tutti i docenti e i dirigenti d’istituto, la formazione in servizio sarà obbligatoria ed esclusivamente a distanza. Infatti sarà istituita la Scuola di Alta Formazione, obbligatoria per dirigenti scolastici, docenti e personale ATA, che terrà corsi obbligatori per la progressione di carriera (cioè la futura gerarchizzazione dei docenti) e che sarà gestita dai dirigenti di INDIRE, INVALSI, UNESCO e non a caso anche dell’OCSE, ente nato con fini economici che da anni ormai detta legge nel campo della formazione.

La digitalizzazione dell’istruzione è un’opzione di fondo del PNRR, sia, come abbiamo visto, per la formazione dei docenti, sia per l’educazione dei/delle giovani. In tale contesto, il documento rilancia la Didattica Digitale Integrata (ossia la Didattica a distanza che ha dimostrato i suoi limiti nei due scorsi anni) e prevede la trasformazione di circa 100.000 classi tradizionali in connected learning environment (ambienti d’apprendimento connessi) “adattabili, flessibili e digitali, con laboratori tecnologicamente avanzati e un processo di apprendimento orientato al lavoro.

Non è chiaro come saranno gestiti tali ambienti, ma è sicuro che ciò che vi si svolgerà sarà ancora una volta diretto verso le competenze utili alle imprese e alla domanda del mercato del lavoro.

Quanto alle discipline che si dovrebbero potenziare si insiste sulle STEM (Science, Technology, Engineering and Math), che dovrebbero essere vettori di una nuova mentalità scientifica, “con ricorso ad azioni didattiche non basate solo sulla lezione frontale” e si citano metodi come il Problem Solving.

È ben noto che gli insegnanti delle discipline scientifiche non si limitano, da anni, alla cosiddetta lezione frontale, ma molti di loro cercano di attivare un’acquisizione dei saperi basata sulla praxis, cioè sull’esperienza pratica da cui nasce la conoscenza empirica che porta, per generalizzazione e riflessione, al sapere teorico che viene in seguito verificato nella pratica.

Questo processo di attivazione del ciclo pratica-teoria-pratica è quello che conduce a un effettivo e profondo sapere, che non può essere confuso con qualche attività in cui ai giovani viene richiesto di raccogliere informazioni scientifiche in vista della soluzione di un problema (lavorativo) che porti all’acquisizione di competenze.

Temiamo che i riferimenti alla risoluzione di problemi siano proprio sintomo della riduzione dei saperi a ciò che serve per svolgere un lavoro e per essere adeguatamente “flessibili” in relazione ai bisogni del mercato.

Sempre in tema di discipline, se il documento lamenta la scarsa capacità dimostrata dagli studenti di argomentare e dibattere, appare almeno sospetta l’indifferenza che dimostra verso lo studio delle scienze umane, letteratura, storia, filosofia, probabilmente ritenute inutili nella prospettiva tecnocratica del PNRR, forse anche “dannose” poiché favoriscono l’acquisizione del pensiero critico.

Un tema caro al ministro Bianchi, che non viene però approfondito, è l’idea che si possa superare l’”identità tra classe demografica e aula, anche al fine di rivedere il modello di scuola”. Ci chiediamo cosa s’intenda veramente fare.

Un’attenzione specifica viene dedicata allo sviluppo degli Istituti Tecnici Superiori, un’istituzione sinora abbastanza marginale quantitativamente nel panorama formativo di terzo livello, con l’obiettivo minimo del raddoppio degli attuali iscritti (oggi sono 18.750).

Tali istituti sono l’incarnazione del Patto educativo di comunità teorizzato dal ministro Bianchi. Sono istituti gestiti da fondazioni costituite su base territoriale a cui partecipano enti e operatori economici e industriali locali.

Tali istituti formano quindi mano d’opera su commissione diretta delle imprese locali, in base alle loro esigenze, tanto che il 50% dei docenti non proviene dai ruoli statali, bensì dal personale delle aziende stesse. Un bell’esempio di gestione privata di istituzioni che dovrebbero essere pubbliche.

Del resto, anche per i docenti statali degli ITS, il mandato è chiaro: testualmente essi dovranno seguire una “formazione perché siano in grado di adattare i programmi formativi ai fabbisogni delle aziende locali”. E cosi è finalmente messa in soffitta la libertà d’insegnamento con tutti i suoi orpelli sulla formazione critica, democratica ecc.

Un destino non molto diverso spetta all’università, poiché anche la componente del piano che la coinvolge vede la ricerca, ma anche l’insegnamento, completamente rivolti alle esigenze economiche delle imprese, tanto che essa ha per titolo Dalla ricerca all’impresa.

La gestione del progetto sarà comune da parte del MIUR e del MISE che gestiranno insieme la simbiosi del mondo economico e dell’università, con scambi di ricercatori e manager tra l’uno e l’altra. Le università parteciperanno alla progettazione di percorsi di innovazione tecnologica delle aziende, quindi saranno, di fatto, al loro servizio.

Quanto al ruolo dei dottorati, in Italia pochi e terreno di clientele da parte dei baronati accademici, la strada scelta dal governo è quella di porli sotto il controllo del mondo economico. Si parla quindi di dottorati funzionali alla ricerca innovativa per l’economia d’impresa e non destinati alla “carriera accademica”. Si giunge a parlare di dottorati d’impresa, i cui programmi saranno dettati direttamente dalle direzioni aziendali (mentre le stesse imprese chiudono, scappano, delocalizzano, licenziano… insomma: scompaiono).

Un progetto che appare ripreso in pieno dal testo Il futuro del lavoro, pubblicato nel 2019 da Assolombarda, notoriamente avanguardia reazionaria di Confindustria (e prima responsabile delle “mancate chiusure” nella bergamasca che hanno fatto dilagare il Covid in tutta italia).

Inoltre, verranno incentivare le start-up imprenditoriali nate dalla ricerca universitaria, anche con la collaborazione della Cassa Depositi e Prestiti e del MISE, per sostenere le piccole e le medie imprese.

Parallelamente è facile immaginare che i dottorati di ricerca che non hanno una ricaduta diretta sull’economia saranno ulteriormente penalizzati.

In conclusione, rileviamo quindi come la Missione 4 del PNRR sia perfettamente coerente con l’impianto generale chiaramente neoliberista del progetto presentato da Draghi, che non cancella la presenza dello Stato, ma ne delinea un ruolo di subordinazione, quasi di “servizio” all’economia di mercato e quindi, nello specifico della scuola e formazione, ai bisogni formativi delle imprese e della produzione.

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