Dal 7 aprile al 7 maggio, ancora sotto lockdown, si sono verificati 83.311 nuovi contagi. L’ISS ci dice che su 9.360 casi diagnosticati il 20% ha contratto il virus in occasione di lavoro. L’INAIL, d’altra parte, certifica al 4 maggio oltre 37.000 contagi (17% del totale) sui posti di lavoro, con una età media di 47 anni.
Questi dati, parziali e largamente sottostimati, restituiscono perfettamente in quali condizioni siano stati costretti a lavorare – o a recarsi al lavoro – milioni di lavoratrici e lavoratori che non hanno potuto scegliere di “restare a casa”. Ma che a casa, dalle proprie famiglie, ci tornavano a fine turno di lavoro diventando a loro volta vettori di infezione.
Del resto, nel periodo di massima chiusura in questo Paese erano attive oltre il 52% delle attività produttive, dichiarate essenziali, alle quali sono andate via via aggiungendosene altre: a metà aprile erano 200.000 le aziende riaperte in deroga, il 55,8% delle quali nelle regioni più colpite dal virus.
A ben vedere dunque le misure di contrasto all’epidemia sono state dettate non dal rispetto del diritto alla salute delle lavoratrici e dei lavoratori, e dei cittadini tutti, ma dalla volontà di profitto delle imprese e dall’impossibilità del SSN di tenere botta ai ricoveri a causa dei ripetuti tagli, definanziamenti e assenza di prevenzione.
Ora, nella fase di riapertura e a pandemia ancora in corso, Confindustria non solo rivendica con “furore ideologico” sgravi, soldi a fondo perduto, detrazioni, indennizzi, senza vincoli e controlli dello Stato – puntualmente concessi nel decreto “rilancio” appena presentato dal governo, per un valore che supera il 50% della manovra stessa – ma pretenderebbe pure uno scudo penale che metta al riparo le imprese dalla responsabilità di mettere in sicurezza le lavoratrici e i lavoratori.
Da Confindustria è partito un feroce attacco all’INAIL, colpevole di riconoscere il Covid-19 tra le cause di infortunio e nonostante i ben 453 milioni a fondo perduto (50 attraverso il Cura Italia e 403 col Decreto Rilancio) che la stessa INAIL ha messo a disposizione delle imprese per l’acquisto dei dispositivi di sicurezza e per la sanificazione dei luoghi di lavoro.
Siccome le malattie infettive sono sempre state riconosciute come “causa di infortunio” (non se lo è certo inventato il Cura Italia!) e la denuncia di infortunio di per sé non produce alcun automatismo nel riconoscimento di una condotta colposa, che resta da accertare e che può essere penalmente sanzionata solo a seguito della sua individuazione, altrimenti viene archiviata (come avviene nella maggior parte dei casi d’altronde!), cosa si nasconde davvero sotto la richiesta di Confindustria che, peraltro, necessiterebbe dell’abbattimento di almeno un paio di articoli del Codice Penale?
L’attacco sottende in realtà una vera e propria rivendicazione di avere mani libere sulle condizioni e sull’organizzazione del lavoro, l’insofferenza verso ogni regola, seppur minima, che tuteli i lavoratori, l’indignazione per la lesa maestà di possibili, quanto improbabili, controlli da parte di quello Stato al quale si chiede continua assistenza senza contropartite.
La storiella padronale dello “spirito anti-imprenditoriale” si infrange sulla realtà degli ultimi 30 anni che ben racconta come questo capitalismo straccione intenda perseverare nella socializzazione delle perdite a fronte della privatizzazione dei profitti.
E allora, non solo giù le mani dall’INAIL, e da qualsiasi servizio pubblico svolga funzioni determinanti a tutela dei lavoratori, ma vanno rafforzati diritti e tutele per tutti e tutte.
L’aumento costante e consistente degli infortuni, solo aggravati dall’epidemia in atto, determinati dal continuo peggioramento delle condizioni di lavoro richiede un intervento che metta al centro il rispetto della vita e della salute dei lavoratori.
Il Primo Maggio abbiamo lanciato la proposta del reato di omicidio sul lavoro, su questa strada intendiamo proseguire. Perché deve finire il tempo del lavoro senza diritti e senza dignità, è il momento di inchiodare i padroni alle loro responsabilità.
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