Ho conosciuto Alessandra così.
In uno dei momenti più belli della mia vita, uno di quelli per cui non ringrazierò mai abbastanza i miei compagni, quelli che ancora oggi camminano con me e che, semplicemente, si fidarono. O forse semplicemente era complicato trovare una altrettanto pazza, ma importa poco.
Avere vent’anni e avere i sogni grandi. Estelle, piccola e traballante sempre, silenziosa e imponente quando andava a vela, la scoperta – lì davvero – di non soffrire il mal di mare. E poi il blocco da violare, la voglia di prendere a schiaffi i carnefici, le sardine in scatola inesauribili e un capitano che riuscì a tollerarmi nonostante tutto.
Il carburante che non bastava, i super santos che non finivano mai. Un corteo che ha fatto saltare i metal detector, e il più bel bagno a largo di Ischia, a ottobre, che mi ricordi. Ci sarei andata pure in capo al mondo.
La Palestina, che mi sembrava la madre di tutte le ingiustizie e il focolaio della più autentica resistenza. La kefiah, le poesie, le fionde davanti ai carri armati.
Alessandra stava lì al porto di Napoli e insieme a lei erano migliaia. Da tutte le parti del mondo.
Ogni ragazzino dovrebbe crescere facendo esperienza di una meraviglia: gli uomini, a prescindere da dove nascono e dove muoiono, trovano sempre il modo per scoprirsi uguali, la stessa parte. Forse a me ha cambiato la vita.
Negli anni successivi l’ho vista sempre meno. Io ho fatto altro. Lei sempre attenta. Improvvisamente il mondo era cambiato. E però paradossalmente la sua battaglia contro la malattia, così trasparente, così pubblica, così vera, me la faceva venire in mente spesso. Lei nemmeno lo sapeva. Vorrei averglielo detto.
Ha lasciato molto più di quanto immaginasse, e questo è tutto. Ci vuole assai coraggio a vivere, molto di più a combattere e a innamorarsi della vita.
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