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E così se ne è andata anche lei, dopo una vita di lotta dalla parte del torto, da parte degli oppressi, di coloro che oggi vengono chiamati sprezzantemente perdenti.

Rossana Rossanda era prima di tutto una comunista, nel senso pieno, sofferto e critico, di questa parola, come mi disse una volta. Sono sicuro che il suo riferimento morale, prima ancora che politico e teorico, fosse Rosa Luxemburg. Ed anche lei era di una intelligenza gigantesca, consolidata da una intransigenza morale piena, che per tutta la vita è stata posta al servizio della causa del socialismo.

Stava con gli operai, con gli sfruttati, con le donne e gli uomini oppressi e contro il potere, verso il quale esercitava tutta la sua critica, anche quando questo potere sventolava la bandiera rossa.

Per la mia generazione è stata una guida e un insegnamento profondo, qualche volta anche conflittuale, ma sempre vero, indispensabile. Mi fermo qui perché lei odiava ogni celebrazione e liturgia, prima di tutto quella della sua parte, e quindi avrebbe riso di molti degli articoli che ora le saranno dedicati.

In una sua ultima intervista Rossana Rossanda aveva espresso tutta la sua indignazione per questa Italia diventata un paese senza spina dorsale, irriconoscibile per lei partigiana di una vita, a partire dalla Resistenza al Fascismo.

Ma come sempre lei non si fermava alla constatazione della realtà, né alle colpe altrui. Per Rossanda la colpa del degrado reazionario e fascistoide dell’Italia stava a carico soprattutto della sinistra, della sua rinuncia ad essere sé stessa.

Lei rifiutava la categoria del tradimento, ma non perché non vedesse la gravità del male che viene prodotto quando chi dovrebbe rappresentare e organizzare il campo degli oppressi, finisce per sostenere le ragioni degli oppressori. La sinistra che fa la destra fa più danni della destra, perché educa alla rassegnazione e alla resa e svilisce e colpisce la fiducia stessa nella possibilità che le cose cambino.

Rossanda rifiutava la categoria del tradimento perché non si accontentava di essa, voleva capire perché la sinistra abbandoni il suo campo.

“Perché?” è la parola rivoluzionaria che non mancava mai nel linguaggio di Rossanda. E con i suoi “perché” noi la ricordiamo, mentre cerchiamo di essere coerenti e con la schiena dritta come lei.

Addio compagna Rossana Rossanda, il tuo spirito critico e rivoluzionario continuerà a vivere, nonostante i tempi terribili.

Giorgio Cremaschi

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E’ scomparsa Rossana Rossanda: superfluo per chi osa scrivere da un angolo di lontana periferia dell’impero testimoniare della sua figura di lucida anticipatrice nel panorama “storico” della sinistra comunista in Italia e in campo internazionale.

Vale però la pena di riflettere sugli straordinari passaggi via via verificatisi nel corso della sua vita politica e culturale: dalle responsabilità assunte ai vertici del PCI con le segreterie di Togliatti e Longo, alla radiazione del “i”, alla trasformazione della rivista in quotidiano come vero e proprio “miracolo” in equilibrio tra editoria e politica nel corso dei decenni più travagliati della vicenda italiana.

Senza alcuna volontà di esternazione retorica ritengo però che, ancora, il momento più alto di questa storia sia stato rappresentato dalla vicenda del “Manifesto” gruppo politico, o tendenza o sensibilità, all’interno del PCI fino alla radiazione.

Questo giudizio mi pare avvalorato da almeno tre ragioni: la prima quella della straordinarietà di livello culturale e politico di quel gruppo, la seconda quella della forza della capacità di analisi in essere nelle argomentazioni poste nel corso dello scontro con la direzione del PCI, la terza perché quel gruppo ha rappresentato l’espressione politica più importante nell’originalità della presenza della sinistra comunista in Italia.

Rossana Rossanda è stata, con grande coraggio e livello di dimensione intellettuale, capace di rappresentare la presenza di una sinistra comunista caratterizzata all’interno del “caso italiano” fin dall’elaborazione gramsciana a partire dall’articolo profetico “la Rivoluzione contro il Capitale” e dal congresso di Lione ’26 e poi, a discendere, fino alle analisi riguardanti lo sviluppo del capitalismo italiano, alle analisi relative alle dinamiche internazionali, alle riflessioni sul mutamento nelle forme della politica e sul rapporto tra questa e i vorticosi mutamenti delle categorie sociali.

Il gruppo del Manifesto è stato semplicemente (ma radicalmente) portatore di un dato di modernità nella prospettiva dello sviluppo individuandone i motivi profondi della crisi ed egualmente era stato capace di reclamare una forte innovazione nella possibilità di espressione dei propri fini politici.

Ci trovavamo all’epoca dentro a un quadro molto complicato segnato dal modificarsi nell’insieme delle relazioni internazionali (guerra del Vietnam, decolonizzazione in Africa, nuova fase del bipolarismo dopo la stagione kruscioviana) e dalla ripresa delle lotte (il ’68 era trascorso, ma in Italia resisteva la contestazione con la saldatura operai/studenti, la stagione dei consigli, la spinta verso la democratizzazione del Paese).

L’origine del confronto tra PCI e le diverse espressioni di sinistra comunista e no (pensiamo a Panzieri, ai Quaderni Rossi, all’operaismo, a parti di CGIL e PSIUP ) si era però sviluppata nel tempo ed era maturata con gradualità: almeno dal ’62 dal convegno del Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano, poi con la morte di Togliatti, l’XI congresso, l’invasione di Praga.

L’invasione di Praga rappresentò, come molti ricorderanno, lo snodo decisivo. Per tutti gli attori in campo, Manifesto compreso c’era da segnalare il permanere di un pesante bagaglio ideologico, anche con una qualche espressione di ingenuità nella ricerca di riferimenti diversi.

Però l’oggetto del contendere era chiaro: quello della ricerca intorno a quali valori della modernità si poteva fondare un progetto alternativo. Un progetto alternativo che indicasse un orizzonte in quel momento giudicato “maturo” rispetto ad un modello di fraintendimento dell’inveramento statuale della rivoluzione avvenuta, giudicato già con grande anticipo come irriformabile.

Cercando di usare categorie gramsciane si può affermare che il PCI, nell’occasione della radiazione del i, finì con il rinunciare a una possibilità originale di esercizio della guerra di posizione collocandosi invece, nei suoi i tratti essenziali, dentro a un processo di “rivoluzione passiva”.

Un processo di “rivoluzione passiva” introiettato drammaticamente come prologo alla caduta degli anni’80 e alla sostanziale incapacità di resistere alla controffensiva dell’avversario.

Rossana invece ha resistito da allora fino alla fine ostinatamente in direzione uguale e contraria e sta in questo punto, a mio giudizio, il grande valore della sua presenza politica, culturale, morale.

Franco Astengo

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Ero adolescente quando, per la prima volta, vidi e ascoltai Rossana Rossanda.

Stavamo in un’assemblea dell’area del giornale e del gruppo politico denominato “Il Manifesto”, precisamente nel romano cinema Jolly, a pochi passi dalla Stazione Tiburtina.

Può forse un grande partito come il Partito Comunista Italiano accusarci di metterlo in difficoltà con la nascita, alla sua sinistra, della nostra piccola organizzazione? Non credo sarebbe giusto affermarlo! Un elefante non può accusare un moscerino se non riesce a muoversi!

Qualcosa del genere, in un pomeriggio dei primissimi anni ’70, sentii con le mie orecchie dalla sua diretta voce, una voce senza dubbio ritmata da un’abile arte oratoria.

Lei aveva pure un buon intuito su cosa fare e dove stare nelle principali battaglie politiche che, dopo il big bang del ’68-’69, attraversarono la Prima Repubblica.

Nei primi anni ’70 stette dalla parte dell’anarchico Pietro Valpreda, accusato innocentemente di essere il responsabile della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

La cosa più rivoluzionaria che fece in vita sua fu infatti proprio quella di far candidare lo stesso Valpreda nella lista del gruppo “Il Manifesto” alle elezioni politiche del 1972.

Il Manifesto”, risultato settimo fra i partiti, ottenne solo 224 mila voti ma contribuì, a modo suo, alla campagna della sinistra rivoluzionaria contro la strage di Stato.

In seguito partecipò alle lotte di massa e referendarie per difendere la legge sul divorzio e quella sull’aborto.

Nel big bang del movimento del 1977 contro le politiche economiche dell’austerità, a solo danno del proletariato, e la connessa formula governativa della “solidarietà nazionale”, rimase confusa assieme a tutta la sua specifica compagine politica.

Durante il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, nella primavera del 1978, fu in contrasto rispetto alla “linea della fermezza”, rigidamente orchestrata dai dirigenti della Dc e del Pci, e a favore della “linea della trattativa”.

Tra la fine del 1980 e l’inizio del 1981, durante il sequestro del giudice D’Urso, organizzato dalle Brigate Rosse allo scopo di ottenere la chiusura del carcere speciale dell’Asinara, si comportò in modo analogo.

Nella prima metà degli anni ’80, pur denunciando le torture, favorì il movimento della “dissociazione” da parte di svariati prigionieri politici della lotta armata e del sovversivismo rosso e quindi, sia pur indirettamente, favorì la successiva legge della “dissociazione” (18 febbraio 1987, n° 43), cioè una legge a sostegno dell’abiura.

Per tutti gli anni ’80 e fino al 1991 sbagliò l’analisi sulla politica internazionale, prima dando giudizi positivi sulla Polonia di Walesa e poi sulla perestroika di Gorbaciov.

In seguito, nel 1993, cercò di controbilanciare la situazione con il libro-intervista a Mario Moretti, persona tuttora in semilibertà dopo 40 anni di detenzione.

Sì, parlò con alcuni prigionieri politici che non avevano usufruito della legge sulla “dissociazione”, ma non è questo che dimostra il suo amore per la giustizia e per la libertà.

La vera Rossana Rossanda, al di là dei frequenti errori di analisi sulla politica internazionale e al di là delle apparenze, è stata quella che ti guardava negli occhi e, se avevi difficoltà a causa della repressione statuale, ti dava il consiglio giusto al momento giusto.

In questo senso, mettendo la Storia con i piedi per terra, possiamo affermare che lei, “la ragazza del secolo scorso”, fece parte dell’album di famiglia della compagneria.

Non era lei a dover dire se ne facesse parte questa o quella componente della compagneria.

Era ed è la compagneria, almeno nella sua stragrande maggioranza, a pensarlo di lei.

Sandro Padula

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Quel “il manifesto” nato a Parigi nel maggio ’68

È a Parigi, in pieno ’68, che ha cominciato a prendere forma l’idea di dar vita a una rivista come luogo in cui raccogliere la riflessione della sinistra critica interna ed esterna al Pci. Un anno dopo, nel giugno 1969, quella rivista mensile sarebbe uscita in edicola con la testata il manifesto, esplicito riferimento al «Manifesto dei comunisti» di Marx ed Engels del 1848, andando incontro alla radiazione dal partito dei suoi promotori. Ma era da qualche tempo che nel Pci si era sviluppato un confronto inedito sui temi del neocapitalismo italiano e di un conseguente rinnovamento strategico che trovò nell’XI Congresso del 1966 il momento di più aspro confronto (furono le assisi in cui Pietro Ingrao pose il tema del superamento del centralismo democratico come metodo di vita interna e di un nuovo modello di sviluppo).

È QUESTA LA PRIMA riflessione che viene in mente rileggendo i due libri meritoriamente rieditati dalla manifestolibri cinquant’anni dopo della prima edizione della De Donato: Lucio Magri, “Considerazioni sui fatti di maggio” (pp. 176, euro 16); Rossana Rossanda, “L’anno degli studenti” (pp, 96, euro 12). Magri, allora giovane funzionario di Botteghe oscure, e Rossanda – in quel periodo deputata del Pci dopo aver diretto la Sezione culturale del partito – andarono insieme a Parigi nel 1968 per capire quello di nuovo che animava il maggio. Il loro sodalizio intellettuale era fortissimo.

La lettura non ha perso di attualità. Si tratta infatti di due testi che, con uno stile a metà tra saggio e puntigliosa cronaca giornalistica, ricostruiscono gli eventi di quell’anno indimenticabile in Francia e in Italia con chiavi interpretative e di approfondimento. Scrive Magri, di cui si scorge l’influenza della Scuola di Francoforte di Marcuse e Adorno a rapporto con il marxismo più classico: «La forma di dogmatismo più diffuso è quella che usa una grande apertura metodologica e squillanti riconoscimenti delle novità della situazione solo per conservare l’essenziale delle proprie idee». PER LUI, I FATTI a cui ha assistito impongono invece nuovi approcci e scelte non di routine. Rossanda – che analizza il ’68 italiano nelle università di Trento, Pisa, Torino, Venezia – socializza una convinzione: «Gli studenti non sono un soggetto a parte, con i quali solidarizzare, o da respingere, o semplicemente da comprendere; sono un aspetto del capitalismo maturo che esplode e domanda sbocco». Nella sua originale analisi del movimento italiano riecheggiano le lezioni non ortodosse di Louis Althusser e Jean-Paul Sartre.

Sta qui una prima convergenza politica e d’analisi tra Magri e Rossanda che avevano raggiunto una proficua e intensa collaborazione intellettuale destinata a durare per molti anni con reciproco arricchimento (i due libri s’intrecciano per questioni e domande). Per loro, il movimento degli studenti prodotto della scolarizzazione di massa è un soggetto politico nuovo che esprime una propria critica alla società capitalistica: bisogna indagarne dunque cultura e potenzialità, oltre alle forme di autorganizzazione (i due libri avviano tale ricerca in modo parallelo e intrecciato, perciò vanno letti in continuità).

È LA NUOVA stratificazione delle società mature inoltre che produce inespresse soggettività sociali, come dimostreranno l’intero ciclo sessantottino e gli anni successivi. Si presenta perciò anchilosata – secondo Magri e Rossanda – la lettura tradizionale della politica delle alleanze che viene dalla tradizione del Pci: operai e contadini più vaghe classi medie o indistinto ceto medio. Riprendendo la lezione di Antonio Gramsci, in Occidente il processo rivoluzionario di trasformazione sociale si conferma per Magri e Rossanda, proprio alla luce del ’68, complesso, di lunga durata, con la continua conquista di «case matte» che fanno crescere livelli di politicizzazione di massa.

A COLPIRE Magri e Rossanda è anche la diffidenza e la chiusura con cui il Partito comunista francese guarda agli avvenimenti del maggio, atteggiamento meno ostile seppure molto prudente avrà il Pci (da non dimenticare l’incontro nella sede di via delle Botteghe oscure tra il segretario Luigi Longo e alcuni esponenti del movimento tra cui Oreste Scalzone). I due autori traggono infine un’altra conclusione dalla loro ricerca: sembra non reggere più la tesi secondo cui il ruolo del Pci debba favorire lo sviluppo di un capitalismo italiano che resta arretrato senza criticarne indirizzi, modi di produzione e valori. Su questo si era già avviata una discussione nel convegno del 1962 su «Le tendenze del capitalismo italiano» dell’Istituto Gramsci, dove Giorgio Amendola, Bruno Trentin e Lucio Magri avevano animato un dibattito non convergente negli approcci e nelle conclusioni.

IL TESTO DI MAGRI è prefato da un saggio di Filippo Maone, che aveva accompagnato lui e Rossanda nel viaggio parigino. Ci vengono dunque consegnati da Maone particolari umani e politici che hanno fatto da contorno a quella missione politica di cinquant’anni fa, oltre a ulteriori spunti di riflessione politica.

Quanto alla tesi che l’idea del mensile il manifesto nacque in Francia nel ’68, scrive a proposito Maone: «Quelle due settimane e mezza trascorse a Parigi accelerarono la scelta, già da qualche mese in maturazione, nella mente di Lucio e Rossana, di dare vita a una rivista». Al progetto si unirono Aldo Natoli, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Massimo Caprara, lo stesso Maone e molti altri.

Il testo di Rossanda è prefato invece da Luciana Castellina che mette in evidenza l’intuizione del fenomeno sessantottino da parte del futuro gruppo del manifesto: «Era una crisi della modernità capitalistica, non dell’arretratezza».

Aldo Garzia

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1 Commento


  • Mario Galati

    Vorrei inserire una nota stonata in questa partitura dedicata a Rossana Rossanda, per la cui morte sono anche io dispiaciuto.
    Tutti la celebrano, anche i liberali, i quali, però accanto all’aggettivo “comunista”, non mancano di aggiungere la sottolineatura “libertaria”. Non credo di dover spiegare il senso di ciò.
    Ma forse non è superfluo indicare un altro fatto. Ella si era schierata contro l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, nel 1968; successivamente si schierò sostanzialmente a favore dell’aggressione della NATO in Libia, insieme a Susanna Camusso.
    Credo che questi due fatti (non questa parabola, perché non so quanto le due posizioni indichino davvero un’incoerenza) dovrebbero dirci qualcosa (è qualcosa che, tra l’altro, riguarda il giornale Il manifesto e il suo ruolo).

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