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Dall’Autunno Caldo all’Autunno Freddo: la permanente necessità dell’Assalto al Cielo

A quaranta anni dai 35 giorni di lotta dei lavoratori della FIAT a Torino del 1980, il cui esito caratterizzerà il lungo Autunno Freddo della classe operaia in Italia fino ad oggi – dopo un ciclo di lotte più che decennale – occorre fare alcune riflessioni che vadano oltre la ricostruzione storica dei fatti in sé che i singoli protagonisti, diretti ed indiretti, stanno facendo con esiti più o meno apprezzabili.

Per passare dalla testimonianza ragionata alla sintesi politica occorre riflettere sul cuore del problema di quelle vicende a loro modo “periodizzanti”: oggi come allora la questione che si pone è quella una alternativa sistemica che faccia perno sulla necessità di un rappresentanza politica autonoma e di una organizzazione sindacale indipendente, così come di una strategia rivoluzionaria che sappia cogliere i passaggi che vengano maturano a livello globale.

È chiaro che la Storia non è mai scritta in anticipo e che le vicende di quell’Autunno alla FIAT avrebbero potuto anche avere un altro sbocco, soprattutto grazie alla combattività dimostrata dagli operai e dal notevole livello di organizzazione presente ancora dentro e fuori i cancelli di tutto il movimento operaio.

Ma la direzione politica e sindacale era strategicamente rinchiusa nella trappola che si era costruita con le propri mani: non “tradì”, fu “solo” conseguente ai suoi orientamenti e alle sue scelte pregresse.Ovvero all’illusione del “compromesso storico” e alla “politica dei sacrifici”.

D’altro canto nonostante l’infame accordo venisse bocciato a larga maggioranza, non venne trovato uno sbocco su come trasformare la bocciatura nella sua opposizione concreta.

Il movimento rivoluzionario rivelò trasversalmente la sua debolezza, dopo un decennio di grandi tentativi e altrettante divisioni.

E la classe dirigente ritrovò invece la sua forza, iniziando un processo di “restaurazione” (come ebbe poi a chiamarlo stesso Agnelli) attraverso la “lotta di classe dall’alto” che perdura tutt’oggi. Bonomi, in questo senso, è un buon allievo di Romiti.

La cosiddetta “marcia dei 40.000” – in realtà circa un terzo di meno – fu una messa in scena della FIAT che soprattutto rese possibile nella dirigenza sindacale la scelta di una resa senza condizioni, ed un innegabile successo nell’agglutinare un blocco anti-operaio sulla scia degli esperimenti precedenti per costituire una “maggioranza silenziosa”. Ma con una immagine più costruttiva: il lavoro si difende lavorando, recitava uno degli “striscioni” principali in quella marcia.

Detto molto seccamente, le premesse per la sconfitta alla FIAT di Torino erano poste da tempo non solo per ciò che concerne i piani padronali di ristrutturazione, vecchi almeno di un quinquennio, elaborati per la congiuntura di maggior competizione internazionale, che “imponeva” di far fare un salto di produttività attraverso un “balzo tecnologico”.

Per il quale era necessario anche un notevole indebitamento. Un quadro complessivo che rendeva necessaria la ripresa del “governo delle fabbriche”, come affermò ex post Romiti, con una diversa organizzazione produttiva e non semplicemente con meno operai ed impiegati.

Era un contesto in cui il mercato dell’auto in Italia – la FIAT era stato il maggior produttore europeo nel 1974, prima di iniziare il suo declino –  era ristagnante da 10 anni. A differenza di Germania, Francia, Gran Bretagna, i principali mercati europei prima dell’Italia, nel ‘79 si vendeva lo stesso numero di vetture vendute nel ’70 e vi era una previsione di “drastico calo” per gli anni a venire, in un contesto di maggiore concorrenza nord-americana e giapponese ed eccesso di capacità produttive.

Si affacciava una crisi di sovrapproduzione per una delle delle merci-pivot del ciclo di accumulazione iniziato dal Dopoguerra, e non solo nel comparto auto, con un sovra-stock previsto di più di 400 mila vetture per la FIAT.

Bisognava in generale “produrre più auto con meno operai”, perché la rincorsa tra prezzi e stipendi non reggeva più almeno a far data dalla crisi petrolifera del 1973, ed il taglio della forza-lavoro – come stava avvenendo in altri Paesi – appariva come una via obbligata agli occhi degli imprenditori.

Per far questo era necessario stroncare l’accumulo di forza operaia espressasi in più di un decennio di lotte, e azzerare il potere di contrattazione complessivo dei lavoratori, a cominciare dalle fabbriche che avevano battuto il tempo dell’organizzazione operaia antagonista al capitale. Nella storia del movimento operaio del dopoguerra, infatti, ciò che accadeva a Mirafiori valeva per tutta Italia. Fin lì nel bene, dopo d’allora nel male.

Soprattutto, le premesse per la sconfitta alla FIAT di Torino erano poste da tempo dalle scelte di subalternità del Partito Comunista Italiano, fin dalla nomina alla segreteria di Enrico Berlinguer (succeduto a Luigi Longo nel 1972), dalla formalizzazione del nuovo ruolo che avrebbe dovuto svolgere il sindacato con la “svolta dell’EUR” (nel febbraio del 1978), a due anni di distanza dall’accettazione della “politica dei sacrifici”, ossia di austerità, contenimento salariale e libertà di licenziamento.

Per la dirigenza del PCI e del sindacato si trattava di co-gestire la crisi del capitalismo e non uscire dal capitalismo in crisi.

Ultima premessa, ma non meno importante: queste scelte comportarono la collaborazione attiva del quadro dirigente con la repressione condotta dagli apparati dello Stato in quella che, in Italia, era a tutti gli effetti una “guerra civile a bassa intensità”.

I 61 licenziamenti nell’ottobre del 1979 – avallati dal PCI e dalla direzione della triplice sindacale – e subito dopo lo smantellamento della colonna torinese delle Brigate Rosse, a seguito della delazione di Fabrizio Peci, “sguarnirono” per così dire il campo rivoluzionario, sia dentro che fuori i cancelli.

Bisogna ricordare comunque che, per varie ragioni, dopo le ultime ondate di assunzioni di giovani – di cui più della metà donne – e le lotte del contratto 1979, 6-7000 operai avevano lasciato gli stabilimenti su pressione della FIAT.

Era il sintomo di una offensiva padronale tutt’altro che nascosta, segnale di un graduale cambiamento dei rapporti di forza all’interno, testimonianza di come la FIAT stesse solo attendendo il momento in cui le condizioni sarebbero state più proficue per sferrare il suo affondo finale.

Le BR avevano avuto un ruolo rilevante dall’inizio degli anni Settanta; e nelle lotte alla FIAT, in cui avevano una forte presenza di quadri operai, il loro intervento si era concretizzato per la prima volta con il sequestro del “sindacalista” fascista Bruno Labate, nel febbraio del 1973. Mentre Prima Linea – nata successivamente – intervenne per la prima volta tre anni dopo, in novembre, con una azione contro i dirigenti della FIAT.

Uno dei due arrestati delle BR nel febbraio del 1980, Rocco Micaletto: «è uno dei dirigenti più vecchi e sperimentati dell’organizzazione, ex operaio della Fiat-Rivalta, da anni nell’Esecutivo, ha la direzione politica delle situazioni di fabbrica rimaste in piedi a Torino e Genova», scrive Prospero Gallinari nella sua autobiografia “Un Contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse”.

La controrivoluzione preventiva, è sempre bene ricordarlo, aveva assunto strutturalmente almeno un doppio profilo in Italia: da una parte la pratica stragista inaugurata con la Strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969; e dall’altra la repressione delle avanguardie politiche, cioè sia le avanguardie di lotta nel proprio posto di lavoro – come i 61 licenziati del 1979 – e ovviamente le organizzazioni rivoluzionarie o le aeree politiche sorte “a sinistra del PCI”, in particolare quelle combattenti, ma non solo.

Il 2 agosto 1980 si consumò la strage fascista nella stazione di Bologna, che provocò 85 morti e più di 200 feriti. Alla vigilia di quella che non sarebbe stata una semplice vertenza sindacale – dopo la caduta del governo Cossiga, la FIAT passò dalla proposta secca di poco meno di 15 mila licenziamenti, formulata all’inizio, alla cassa integrazione a zero ore per 24 mila lavoratori.

Una carneficina avvenuta in una delle regoni simbolo del PCI; un avvertimento preciso.

La strategia di “annientamento”ù delle organizzazioni combattenti” e del più largo movimento rivoluzionario si andava intanto caratterizzando con l’uso frequente della tortura, le esecuzioni mirate dei militanti – a cominciare dalla strage del 28 marzo 1980, in via Fracchia, a Genova – e soprattutto con il prolungamento mostruoso della carcerazione preventiva (per ogni grado processuale) e l’apertura delle carceri speciali.

Proprio nel 1980, la lunga battaglia contro le carceri speciali avrà poi un successo di rilievo con la chiusura del carcere dell’Asinara, uno degli obbiettivi che catalizzavano le energie non solo delle organizzazioni combattenti e del movimento dei detenuti, ma di un vasto movimento che individuava nella “Cajenna italiana” una delle espressioni più brutali del dominio della borghesia.

Bisogna ricordare che Il movimento del ’77 segna il punto di non ritorno nella rottura tra la sinistra storica – politica e sindacale – ed una generazione di militanti che è probabilmente l’ultimo elemento propulsivo del Lungo Sessantotto, un periodo che non ha termini di paragone – come capacità di tenuta e livello dello scontro – in nessuno Stato a Capitalismo Maturo dell’Occidente, se si escludono le esperienze dei processi di liberazione nazionale nel cuore dell’Europa, come i Paesi Baschi o l’Irlanda.

Alla mancata messa a sintesi politica di quel variegato e contraddittorio movimento contribuì non poco la controrivoluzione preventiva che vedeva saldati la destra del PCI e lo Stato Profondo, strutturatosi senza marcare una vera “discontinuità” con il Ventennio Fascista e ben presto riconvertito dentro le trame atlantiche, con la Democrazia Cristiana come perno irrinunciabile.

Uno Stato Profondo partecipe sia della repressione nella Fiat di Valletta negli anni ’50 che in quella successiva di Agnelli; la Fiat che ha paura e paga la questura, come recita il titolo di una importante inchiesta di Lotta Continua.

All’interno di questo quadro, con un padronato in offensiva ed una sinistra politica e sindacale subalterna si registra un impasse strategico che attraversa trasversalmente tutte le soggettività della sinistra extra-parlamentare.

Allo stesso tempo cominciano ad essere poste le basi – al di là dei passaggi di fase significativi a venire – che ancora oggi ci permettono di traguardare quella che è stata definita “la madre di tutte le sconfitte” ed i nostri orizzonti immediati in una situazione di conflitto sociale ridotto ai minimi termini, come emerge con forza da La Storia Anomala – Dall’Organizzazione Proletaria Romana alla Rete dei Comunisti”.

Certo quella vertenza sindacale ebbe un significato politico complessivo che solo con il tempo si sarebbe compreso, e che pesò come una spada di Damocle su tutte le altre vertenze contro le ristrutturazioni aziendali.

Ma la sua sconfitta, piena di tragiche conseguenze – circa 200 i lavoratori che si suicidarono dopo il licenziamento – ci insegna ancora oggi la necessità di disfarsi dell’eredità politica di una “sinistra” sindacale e politica che ha portato il movimento operaio italiano “di sconfitta in sconfitta”. E riafferma, non paradossalmente, la permanente necessità dell’Assalto al Cielo.

Nella lotta di classe, il pareggio non esiste.

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