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Università e ricerca fuori dai monitor ma dentro i contraccolpi della pandemia

In un’intervista precedente al Dpcm del 13 ottobre, il segretario del PD Nicola Zingaretti ha indicato le priorità da tutelare: “scuola, università e lavoro”.

Glissando su come il linguaggio della ‘sinistra’ abbia sostituito i lavoratori il lavoro (con quel che ne viene a significare), viene da chiedersi che cosa il segretario abbia voluto intendere con un generico ‘università’.

Infatti, se la scuola è stata al centro del dibattito politico grazie alle performance della Azzolina – che hanno risvegliato dal torpore e dal pudore persino la macellaia dell’istruzione pubblica Mariastella Gelmini – l’università ha fatto fatica a imporsi nei radar del dibattito politico.

Priva di quella funzione di parcheggio delle scuole che tanto sta a cuore all’opposizione salviniana (alla quale sembra che la questione della didattica non interessi), l’università non può, né ha potuto, attirare l’attenzione necessaria a rilevare un effettivo problema nella ripartenza e polarizzare così lo scontro tra le fazioni politiche.

Gli studenti universitari, maggiorenni e autosufficienti, possono tranquillamente stare a casa senza dar pena ai genitori ammassati nei mezzi pubblici mentre vanno al lavoro; se poi questo comporti o meno un problema nella didattica e nella ricerca, poco importa.

Ce ne ricorderemo al limite quando toccherà di nuovo incensare e lodare i nostri medici e ricercatori, svincolandoli dal dissestato contesto in cui si trovano ad essere formati e a proseguire le loro attività di ricerca.

Ricerca sulla quale gli effetti della pandemia si sono abbattuti anche con maggior forza che sul resto delle attività lavorative: la chiusura preventiva delle università, iniziata già a febbraio, si è protratta spesso fino alla fine della pausa estiva.

Da settembre in poi, con notevoli differenze anche tra un ateneo e l’altro, la ripartenza è stata difficoltosa e una prossima chiusura non sembra ora così utopistica. I più colpiti, oltre agli studenti, sono coloro che occupano i gradini più bassi della piramide accademica: dottorandi e ricercatori precari, cosiddetti ‘assegnisti’.

Categorie già segnate fortemente dalle riforme dei precedenti ministeri: se con il DM 45/2013 del montiano Profumo il crollo dei posti di dottorato assegnati annualmente è stato verticale, la tendenza al ribasso è ben precedente; seppur invertita a partire dalla ripresa dopo la crisi economica, è difficile non notare come il numero di posti previsti sia ben lontano dagli standard passati e come una ineguale distribuzione delle borse accentui ulteriormente il divario Nord-Sud.

Tutto questo senza considerare l’impatto sulla qualità della ricerca: l’introduzione delle borse a caratterizzazione industriale ha sì aumentato il numero di posti disponibili, ma vincolandoli a criteri di spendibilità della ricerca che penalizzano progetti di ampio respiro e scienze teoriche, sia naturali che soprattutto umanistiche.

Insomma, se l’università non è stata priorità dei governi di destra/sinistra/tecnici in tempi di relativa pace, difficile che lo sia in tempi di ‘guerra’, dove la già poca lungimiranza viene ancor meno.

La precarietà di dottorandi e assegnisti era già un dato di fatto: il 90,5% di coloro che hanno ricevuto assegno di ricerca si allontana dal mondo accademico in un numero di anni (e di relativo precariato) più o meno breve; la percentuale aumenta se includiamo i dottorandi.

Con il Covid-19, la condizione è peggiorata: l’impossibilità di avviare periodi di soggiorno all’estero, che sono obbligatori in alcuni dottorati, porta a ritardi e scompensi non facili da gestire; la chiusura forzata delle strutture di ricerca (laboratori, archivi e biblioteche) è andata in molti casi ben oltre quella dei locali di svago e comporta disfunzioni molto gravose; alcune ricerche sono vincolate a stagionalità impossibili da rispettare e il lockdown ha distrutto mesi di rilevazioni.

Ad oggi alcune biblioteche pubbliche, persino universitarie, non sono attrezzate per riaprire alla consultazione; l’accesso è limitato e, in alcuni casi, le condizioni di prestito escludono i non iscritti, pur trattandosi di biblioteche statali.

A fronte di una chiusura protrattasi da febbraio-marzo a maggio-giugno, sebbene in molti casi la riapertura sia avvenuta molto più tardi, il decreto Rilancio, poi convertito in legge, ha riconosciuto una proroga di due mesi a tutti i dottorandi che ne avessero fatto richiesta.

Per una chiusura delle strutture di ricerca per un tempo variabile da tre mesi a otto, più i ritardi che l’attuale condizione continua ad avallare, due mesi non sono che un palliativo, ininfluente ai fini di una risposta valida alla crisi che minaccia la qualità del lavoro di ricerca e le condizioni già precarie di sicurezza e stabilità dei dottorandi, che il ministero e i rettori tendono a considerare più come studenti che come ricercatori in formazione.

Per di più, la proroga riguarda solo i dottorandi del XXXIII ciclo, quello in chiusura quest’anno, senza riconoscere l’estensione agli altri cicli attivi (e dunque colpiti parimenti) richiesta dall’ADI, l’Associazione Dottorandi Italiani. La stessa proroga, estesa anche agli assegnisti, è vincolata alla decisione dipartimentale e dipendente per i secondi da fondi di progetto.

Insomma, se la risposta data ai problemi dei lavoratori della ricerca in termini di priorità è stata questa, le parole di Zingaretti potrebbe suscitare più angoscia che tranquillità: il tutto a danno di una classe sociale che per composizione, frammentazione, numero limitato e transitorietà della condizione, manca necessariamente della voce in capitolo che le spetterebbe.

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