Abbassando il volume del coro encomiastico di quasi tutta la stampa verso Mario Draghi possiamo cercare di capire, dopo il discorso alle Camere del neo Presidente del Consiglio quali saranno i principali orientamenti del governo in materia di Istruzione, settore al quale egli ha detto di voler dedicare particolare attenzione.
Se è evidente che il governo Draghi è nato per delega diretta dell’UE e che, quindi, ogni decisione sarà modellata sulle politiche europee, crediamo si possa dire che ciò si annuncia particolarmente pertinente per l’istruzione. Ciò significa subordinazione della scuola alle imprese e scuola professionalizzante secondo le loro necessità, poiché tale è stata la politica dell’UE e dell’OCSE almeno negli ultimi venti anni.
Nel suo discorso Draghi ha fatto riferimento al ruolo che nella politica scolastica del governo potrebbero assumere gli Istituti Tecnici Superiori, istituzioni che sinora, in Italia, hanno una presenza limitata poiché frequentati soltanto da 16.000 studenti e collocati soprattutto nelle regioni imprenditoriali del Nord e con corsi specifici legati alla specifica produzione dei territori.
Sono istituti, naturalmente, di eccellenza, che si occupano della formazione professionale terziaria, dichiarando apertamente la loro subordinazione al mondo produttivo –citiamo dal sito del MIUR – “poiché espressione di una strategia fondata sulla connessione delle politiche d’istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali: l’obiettivo è sostenere gli interventi destinati ai settori produttivi, con particolare riferimento ai fabbisogni di innovazione e di trasferimento tecnologico delle piccole e medie imprese”.
Gli Istituti Tecnici Superiori rispondono perfettamente al modello di territorio educante proposto dal nuovo ministro Patrizio Bianchi; sono gestiti da fondazioni a cui partecipano gli enti locali e rappresentanti dell’industria, che hanno potere di intervenire sui programmi d’insegnamento e i docenti provengono per almeno la metà dal mondo imprenditoriale. Sono un esempio pratico dei patti di comunità cari al ministro Bianchi, grande sostenitore della sussidiarietà pubblico-privato e di un allargamento qualitativo dell’autonomia scolastica.
A questo proposito appare molto poco credibile l’affermazione che il governo Draghi vorrebbe ridurre le disparità sociali, visto che proprio le politiche basate sulle autonomie territoriali ne sono una delle cause, come è dimostrato dagli stessi dati forniti dal Presidente del Consiglio, secondo i quali solo poco più del 60% degli studenti delle scuole superiori ha potuto seguire continuativamente la didattica a distanza e chi ne è stato respinto si trova soprattutto nel meridione e nelle aree comunque più povere.
Il progetto degli Istituti Tecnici Superiori, al cui sviluppo è riservato un miliardo e mezzo del Next Generation Fund, risponde esclusivamente ai bisogni del cosiddetto mercato del lavoro, che è cambiato progressivamente, negli ultimi decenni, sotto la spinta dell’innovazione tecnologica. Infatti, la diffusione dell’informatica e della robotica ha progressivamente ridotto la necessità di figure professionali di grado intermedio, la cui richiesta imprenditoriale è quindi crollata.
Oggi, l’offerta di posti di lavoro è polarizzata sui livelli più elevati, di alta qualificazione, e su quelli più bassi, che richiedono solo competenze che richiedono una scarsa formazione, accompagnate dalla disposizione alla famigerata flessibilità. Posti occupati da lavoratori a cui si chiede di essere duttili, di saper cambiare lavoro più volte nella vita, ma sempre in ruoli di basso profilo.
Ecco dunque avanzare il progetto di creare istituti che preparino tecnici altamente qualificati formati direttamente al modello imprenditoriale mentre si riserva alla maggioranza dei giovani una scuola che non si pone più l’obiettivo di offrire saperi per formare cittadini colti e critici, ma che s’incentra sull’acquisizione di quelle otto competenze di base che, definite a livello europeo, sono ormai la triste litania dei documenti del Ministero italiano.
Tutto ciò evidentemente è l’assalto finale all’idea stessa di un sistema formativo unico nazionale, alla scuola della Repubblica, all’impegno per una formazione critica e che dia autonomia culturale. Non è un caso che Draghi abbia usato, a proposito degli studenti, il termine di “capitale umano” perché ciò esprime perfettamente la concezione di una scuola e di un’università in cui si “investe” su tale capitale per ricavarne dei benefici ai fini produttivi.
Giova anche ricordare che il nuovo ministro Bianchi, apologeta dei progetti di scuola-lavoro, ha ipotizzato per il futuro che i giovani possano lasciare la scuola a 16 anni per intraprendere formazioni aziendali. In pratica, lo storico apprendistato per cui servono poche ed essenziali competenze.
È dunque solo adottando uno sguardo ampio verso le politiche UE che si possono comprendere le scelte attuate dal Ministero negli ultimi anni circa l’introduzione forzata, senza che vi sia stata alcuna condivisione pedagogica, della didattica per competenze e del suo armamentario di tecniche fintamente innovative, come la “classe rovesciata” , il jigsaw (puzzle) o, per usare l’italese manageriale tanto di moda al Ministero dai tempi del governo Renzi il collaborative problem solving skills cioè, più semplicemente, le “competenze per risolvere insieme un problema” che tanto piacciono a Patrizio Bianchi.
In realtà, questa è la plastica dimostrazione del livello a cui si vuole ridurre la scuola, cioè la formazione di lavoratori flessibili e adattabili a situazioni diverse, che, senza avere saperi approfonditi, sappiamo però risolvere semplici problemi lavorativi. Sull’altro versante, quello della formazione più elevata, meglio puntare sugli Istituti Tecnici Superiori modellati sui voleri del padronato, che sull’Università, dove magari può ancora esistere qualche spunto di criticità.
Questo è il quadro di riferimento in cui si muoveranno le prossime politiche dell’Istruzione, dettate in gran parte dalla UE, dall’OCSE, dalla Tavola Rotonda degli Industriali Europei. In tale contesto, diventa inquietante anche la dichiarazione di Draghi sulla Didattica a Distanza che pur garantendo la continuità del lavoro scolastico, non potrebbe sostituirsi a quella in presenza, ma avrebbe suggerito soluzione tecnologiche su cui riflettere per un loro impiego in altre situazioni.
Sappiamo che non c’è nulla di più delicato del tema delle nuove tecnologie per quanto riguarda la possibilità che esse siano usate per sviluppare creatività e ingegno oppure per ridurre la criticità e promuovere l’esecutività, come è già oggi nella maggior parte dei casi, soprattutto negli Istituti professionali.
Anche altre idee espresse da Draghi sono evidentemente suggerite dal contesto europeo. La ventilata riduzione di un anno del percorso dei licei è già adottata in numerosi paesi europei soprattutto da quando, in seguito alla Conferenza di Bologna del 1999, l’Università divenne di tre-cinque anni anziché quattro, con una sostanziale dequalificazione della formazione accademica, in cui il primo ciclo si trasformò praticamente in una sorta di post-liceo.
Quanto alla modifica del calendario scolastico, essa potrà essere europea solo se ridurrà il numero di giorni di lezione, poiché in Europa normalmente se ne fanno 180 all’anno, mentre in Italia 200. In pratica, se si considerano sabati e domeniche, un mese di scuola in più. senza che se ne vedano risultati effettivi. Al contrario, sembra che in Italia si voglia ancor più allungare un anno scolastico già esagerato.
Per le situazioni più contingenti, a breve termine, si parla invece molto in questi giorni dell’eventualità di un recupero di giorni di lezione, con un prolungamento nei mesi estivi. Sembra che il disastroso tormentone della scorsa estate sui banchi a rotelle possa tramutarsi in quello dei condizionatori.
Abbiamo già scritto che ogni prolungamento dell’anno scolastico è impossibile e comunque sarebbe dannoso per insegnanti, studenti e famiglie. Meglio preparare un rientro, per l’anno prossimo, migliore di quest’anno, che è stato segnato dalle disastrose iniziative di Lucia Azzolina. In tal senso, il primo provvedimento da prendere sarebbe un piano di massicce assunzioni di personale, che potrebbe garantire un miglioramento della scuola anche al di là della pandemia.
Tuttavia, su questo punto Draghi si mostra meno europeista. tanto da ignorare la sentenza della Corte di Giustizia Europea che impone l’assunzione dei precari che hanno prestato tre anni di servizio, in virtù della quale, tra l’altro, l’Italia rischia l’apertura di una procedura di sanzione dal parte della UE.
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