Il 1⁰ maggio a Bologna è successo qualcosa di importante.
Qualcosa che ha messo il dito nella piaga delle contraddizioni di una classe politica che ha venduto la propria identità, ma che su quella identità si giocava il proprio brand da spendere come prodotto di qualità sul mercato elettorale.
Quando migliaia di lavoratori, di precari, si ritrovano per le strade di tutta Italia per rivendicare diritti, e lo fanno fuori e contro il sistema dei sindacati confederali complici, lontani dai loro palchi sponsorizzati da Eni e più simili agli Mtv Day (ve li ricordate?) che a una giornata di lotta, già il groppone deve essere duro da mandare giù per chi siede nelle istituzioni, ma ci provano usando il collaudato mezzo della censura.
Però quando le mobilitazioni indipendenti riescono a rompere il meccanismo dell’invisibilità e a imporsi sugli schermi, non sono più strumentalizzabili come il discorso di un influencer comodo e inoffensivo, e il loro portato dirompente deve essere rincorso e perimetrato.
Così migliaia di giovani che calpestano con entusiasmo, disciplina e determinazione chilometri e chilometri di asfalto per disturbare un raduno fascista nella giornata internazionale del lavoro, giovani che si sono caricati su di sé il compito di impedire che quel raduno passasse come un fatto “legittimo” (perché secondo chi ci amministra le periferie dovrebbero essere le fogne della politica locale), quei giovani diventano un pugno in un occhio che impone un adeguamento del discorso pubblico.
Ed ecco tutti gli assenti pronti a cercare di mettere una pezza alla loro vergognosa lontananza da quelle stesse strade, scagliandosi contro il terrificante servizio dedicato dal TgR ai fatti di sabato pomeriggio, senza tenere in considerazione che il giornalista ha seguito il canovaccio che proprio l’amministrazione e le forze politiche che la sostengono gli avevano scritto.
Incredibile vedere strapparsi le vesti ai dirigenti del PD, il partito che ha sdoganato il revisionismo del 10 febbraio e l’equiparazione tra nazifascismo e comunismo. Incredibile il disappunto di chi amministra, e che quei raduni li ha sempre consentiti, limitandosi tutt’al più a imbastire presidi simbolici con la complicità dell’Anpi locale, la stessa associazione che ad Anzola nei giorni scorsi ha nuovamente escluso il sindacato scomodo USB dalle commemorazioni della Liberazione; o che a Roma il 25 aprile pensava di “privatizzare” le targhe ai partigiani di Porta San Paolo impedendo ai cittadini e alle strutture antifasciste di portare un fiore.
È ai limiti del ridicolo assistere alla sceneggiata con cui le forze politiche che governano con la Lega e che non hanno cancellato i Decreti Sicurezza e i Decreti Salvini cercano oggi di gridare allo scandalo, quando sono pienamente parte dello spostamento a destra del clima culturale e dell’asse politico di questo paese.
Dal corteo del primo maggio, è partito un folto applauso quando le bandiere rosse o le canzoni di resistenza si sono levate dalle finestre del quartiere che stavamo attraversando, ma nessuna complicità abbiamo percepito con chi ora si esprime a mezzo stampa senza nulla fare mai perché il sentimento reazionario in tutte le sue forme non avanzi metro dopo metro nella materialità delle nostre esistenze fuori dalle loro vetrine elettorali.
Il conflitto sociale non si addomestica e sempre più si rende necessario dargli voce fuori dal coro.
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