Avevamo ragione, non è servito a niente.
Cinque anni e cinque governi dopo la serie di scosse che ha demolito l’Italia appenninica, finalmente qualcuno ha trovato il coraggio di dire la verità.
Si chiama Donato Iacobucci, di mestiere fa il professore di Economia all’Università di Ancona, tra i suoi incarichi si segnala il coordinamento della Fondazione Merloni, con tutto quel che ne consegue.
La settimana scorsa, sul Corriere Adriatico, il professore ha firmato un lungo pezzo in cui dichiara superato il modello «silvo-pastorale», rileva come in ampie zone delle Marche ormai ci vivano soltanto quattro vecchi e, di conseguenza, bisogna cambiare strategia. Lo chiama «spopolamento programmato».
Leonardo Animali (ci ha scritto pure un libro) da tempi non sospetti parla di «strategia dell’abbandono», ovvero lasciare che le cose accadano e poi prenderne atto. Non ricostruiamo e la gente se ne va. La gente se ne va e non vale la pena ricostruire. L’operazione è riuscita ma il paziente è morto. Si dice così, no?
Loredana Lipperini, Silvia Ballestra, Phil Connors, il vostro affezionato cronista e altri quattro gatti ne hanno già parlato abbastanza di queste cose, ci abbiamo perso forze e voce a raccontarle in giro, raccogliendo al più pacche sulle spalle, parole di blando incoraggiamento, pietà e grandi chissenefrega detti con gli occhi.
Il concetto è sempre stato semplice: dell’Italia centrale terremotata, in fondo, non gliene frega niente a nessuno. Avevamo ragione. Ma, sapete com’è, la ragione si dà sempre agli scemi.
Nel cratere la gente è poca (sono pochi gli elettori), non è fotogenica né telegenica, parla con una cadenza brutta da ascoltare e dunque non vale la pena starla a sentire.
Quando è arrivato il Covid e si parlava di «isolamento nell’isolamento», si diceva solo la metà del vero: qui non c’è distanziamento sociale perché il distanziamento è naturale. Non c’è più nessuno, lo dice anche Iacobucci.
Ha ragione, anche se finge di non sapere che il vero modello superato non è quello «silvo-pastorale», ma quello dei Merloni, che in dieci anni sono riusciti a perdere tutto il potere accumulato dal dopoguerra in poi. Ma questa è un’altra storia.
Sul terremoto si è parlato molto di «resilienza» – termine da rovesciare al più presto in negativo – e molto poco di «resistenza», che invece è il vero punto centrale della vicenda.
Quella dei terremotati, infatti, è una gara di resistenza: si tratta di correre per chilometri e chilometri per arrivare al traguardo. E se ci arrivi, ti ritroverai stravolto dalla stanchezza, con l’espressione del sopravvissuto più che del vincitore. Ecco, nelle gare di resistenza c’è sempre un momento in cui bisogna rompere il fiato: quando pensi di non farcela più, senti i polmoni che bruciano, il cuore in gola e organi di cui non sospettavi l’esistenza che fanno male. In quel momento o riesci ad andare avanti o ti fermi e ti ritiri.
Cinque anni e cinque governi dopo, siamo esattamente nel momento in cui bisogna rompere il fiato. E scegliere: resistere ancora, opporsi allo «spopolamento programmato», alla colonizzazione turistica, alla ricostruzione che non c’è. L’alternativa è facile: arrendersi e dare ragione a tutti gli Iacobucci del mondo. Via tutti, si vivrà altrove.
In questa estate di ennesima ripartenza, con il sol dell’obbedire che splende sui concertoni in zone protette, sugli abusi paesaggistici, sugli affari che vanno avanti, si parlerà molto di «opportunità», di futuri da inseguire, di rinascita dalle ceneri, anzi dalle macerie.
Ma tornerà un altro inverno. E lì capiremo se avremo rotto il fiato oppure no.
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