Avvertenza. Questo è il mio contributo alla riflessione su Genova 2001. Ho scelto di trattare un tema di cui nessuno parla: i cattivi. Sono fatto così, è nella mia natura. Chiarisco per chi non mi conosce che cercare di capire “i cattivi” non vuol dire stare necessariamente dalla parte loro.
Anche quando la tua analisi mette in risalto le distanze, ma smonta anche certi facili stereotipi e certe comode demonizzazioni. Poi, se non piace quel che scrivo o penso, liberi di mandarmi a quel paese in ogni modo. Punto.
Circa una settimana fa, sentendo le parole di un amico giovane, ho iniziato a riflettere se non fosse ora, dopo 20 anni di riserbo, di raccontare alcune mie riflessioni, riguardo Genova 2001. L’amico, che è pure famoso e quindi niente nomi, ricordò come lui, pischello 18enne, andò a Genova con giovanile incoscienza perché “attratto dalla possibilità che ci fossero scontri”. Si è giovani, si impara, si cresce anche così.
Il sistema, quel sistema del 2001, come ha ben scritto nella sua analisi – alla quale si rimanda concordando in toto per una disamina più completa – Giorgio Cremaschi [1], si poteva solo combattere, si poteva solo odiare: certo, ognuno a proprio modo. Ognuno con i propri strumenti.
Ed è poi, non solo, ma anche, una questione generazionale: un conto è se hai 18 anni, un conto è se – come me, allora – ne hai 40.
Allora facciamo outing, dato che non ho commesso nel 2001 alcun reato e neppure ho partecipato attivamente a scontri: cosa interessava, a me, di Genova 2001?
Spesso ho partecipato alle manifestazioni “da solo”: i pullman, i gruppi organizzati, gli striscioni, vanno quasi sempre bene – mentre in altri casi è meglio essere responsabili solo di se stessi, e non essere immediatamente identificabili, magari come vittima potenziale.
La mia attività di giornalista indipendente mi ha indirizzato verso certe modalità. E su Genova, avendo seguito gli eventi di Seattle, ma anche soltanto quelli di Napoli pochi mesi prima, si addensavano brutte nuvole. A me, a Genova 2001, interessavano i ragazzi e le ragazze venuti da fuori, quelli non predisposti ad essere “pacifici manifestanti brutalizzati dalla polizia”.
Black Bloc, dirà qualcuno. Io lo scrivo solo per farmi capire, è una terminologia molto generica. Diciamo quelli che – fra i No-Global – avevano intenzione di manifestare il loro dissenso in maniera analoga a quanto successo a Seattle e in altre parti del mondo.
Sono passati decenni, spero che in chi legge certe categorie esistano tuttora, e non si siano rapprese fino a ridursi all’osso dello stereotipo. Ho pudore a citare la definizione di “anarchici”, anche per gli orrendi aggettivi che sono stati affibbiati dietro a questa qualifica, e che – ripudiandoli per la loro inconsistenza e pretestuosità – scelgo di neppure citare: il tempo in qualche modo è stato galantuomo e, salvo per pochi innamorati della vendetta a distanza di decenni, certe definizioni sono sparite persino dalle vulgate dei media.
Per essere precisi, a me interessava capire certi legami con movimenti “storici” antesignani, come i giapponesi Zengakuren, le radici di uno dei molti e diversi modi attraverso cui alcuni anarchici scelgono di raccogliersi in piccoli gruppi e partecipare a certe manifestazioni.
Black bloc, va ridetto anche a beneficio dei più giovani che vent’anni fa non c’erano, non è una “organizzazione”, ma una tattica. Discutibile e da cui prendere le distanze quanto si vuole, ma mutevole e proprio per questa sua mutevolezza, difficile da inquadrare, esattamente quello che le ha consentito di continuare ad esistere. Ed esattamente quello che – per me che il Black Bloc non ho mai praticato, e che ripudio la violenza, sia ben chiaro – li rendeva interessanti.
Riassumo, perché questa trattazione è già lunga per necessità. Ci sono diverse ragioni per cui alcuni anarchici facevano black bloc alle manifestazioni.
Innanzitutto, solidarietà: un bel numero di manifestanti “organizzati” ed evidentemente non inermi (travisati, muniti di dispositivi difensivi anti-violenza, etc) fornisce copertura contro la repressione della polizia e ne funge da deterrente.
Però anche diversità: un modo per presentare una critica anarchica alla “protesta del giorno”: può essere vista con fastidio, può essere giudicata poco opportuna: ma da ex anarchico posso dire che dar fastidio può anche essere una scelta necessaria.
Poi, di fronte alla brutalità poliziesca, quando accade, si può parlare di mutuo aiuto, reazione, attrazione dello scontro, con un esempio visivo di come i gruppi possono riunirsi in un gruppo più ampio e resistere.
E poi – in ultimo, e qui so che andiamo a toccare il punto più controverso, escalation: un metodo per “aumentare” una protesta in modo che vada oltre il mero riformismo e il fare appello allo stato per rimediare all’ingiustizia. La distruzione di proprietà simbolo del capitalismo (automobili, bancomat, sedi di banche e organizzazioni) si innesta qui.
Gli scontri – esclusivamente con la polizia, mai contro gli altri manifestanti – si innestano qui. Parlando e scrivendo di e con certi Black Bloc di Genova 2001 – non sono privi di parola e pensiero, possiamo certamente non essere come loro, non essere con loro, ma non sono dei ciechi automi o degli hooligans – possiamo farci un’idea del perché, a Genova, è andata così male.
Molti anarchici di tutto il mondo hanno organizzato e partecipato ai black bloc durante le proteste del G8 del 2001 a Genova.
Tuttavia, la polizia italiana ha anche organizzato un falso black bloc utilizzando agenti di polizia sotto copertura e neofascisti provenienti da tutta Europa. Questi falsi black bloc hanno attaccato altri manifestanti, dato fuoco alle auto e vandalizzato le piccole imprese.
Si sospetta che la polizia abbia organizzato questi blocchi falsi per creare un cuneo tra manifestanti moderati e militanti. Un altro obiettivo – ormai consueto da un secolo – potrebbe essere stata la solita demonizzazione degli anarchici, presentandoli come “terroristi” agli occhi del grande pubblico.
Poi, come da buona abitudine della repressione, questa si è rivolta con furia solo apparentemente cieca verso i manifestanti più pacifici, e questo spiega la Diaz, spiega gli attacchi a freddo (ho conservato per anni un sms drammatico di un compagno che era lì, il maiuscolo è citazione di allora: STANNO CARICANDO SENZA MOTIVO, CERCO DI SALVARE I PIÙ DISORIENTATI).
Non c’erano, a Genova, buoni e cattivi. Non c’era il Movimento No Global “stretto fra la violenza poliziesca e quelli dei black bloc”.
C’è stato il più formidabile attacco violento e di repressione da parte dello Stato di un movimento alternativo, con la parola d’ordine del “tanto peggio tanto meglio”, utilizzando certe tipiche – ed adattissime al caso – tecniche e tattiche da parte dei repressori, le stesse utilizzate dopo Piazza Fontana, le stesse utilizzate quando morì Giorgiana Masi ed in cento altre occasioni.
Purtroppo, in quella circostanza, ebbero successo.
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raf
condivido in toto ciò che hai scritto. lo condivido da anarchico. lo condivido da rivoluzionario. morte al capitalismo e morte allo Stato. fanculo perbenisti e moralisti da due soldi.