Vent’anni da Genova 2001: si è da pochi giorni conclusa la ricorrenza di quel G8 che così tanto segnò i destini di un paio di generazioni (almeno), di un modello di società possibile e che determinò il definitivo sdoganamento di un approccio repressivo e brutale che è diventato caratteristica delle forze di polizia in questo paese.
Venti anni fa il movimento no Global, nel dotarsi di tutti gli strumenti che erano necessari per portare avanti la protesta per come si stava articolando, aveva pensato anche all’aspetto mediatico: era nata dunque Indymedia, che fin dalle manifestazioni di Seattle iniziò a fornire una serie di notizie ed informazioni che misero in evidenza come la stampa “ufficiale” fosse omissiva rispetto – in particolare – le pratiche repressive messe in campo contro le varie manifestazioni.
Era il 1999: un anno dopo nacque Indymedia Italia, che ebbe un ruolo importantissimo proprio nelle giornate di Genova. Il problema dell’accesso ad informazioni corrette e non “filtrate” è storico, per le realtà di movimento: inizia con la “controinformazione” negli anni ’70 e prosegue oggi, in forme e modalità diverse.
E nei giorni infuocati di quell’estate del 2001 emerse, una volta di più, quanto l’informazione italiana fosse “embedded”: ricordiamo bene il tenore di alcuni articoli e servizi televisivi su Carlo Giuliani, sui black block, sulla gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine.
Un modello di informazione che si è poi mostrato, anche quello, una caratteristica: molto appiattito sulle veline che di volta in volta arrivavano dalle Questure, dalle Procure, dai Ministeri.
Nulla di nuovo, nulla di sorprendente: ormai parlare del ruolo del giornalista “cane da guardia” della democrazia a volte fa quasi sorridere, anche se resta sempre il tema dell’utilità e della funzione di una stampa che sia così eterodiretta,
Visti i tempi, naturalmente: il fatto che un giornalismo di qualità, onesto, libero ed indipendente sia una garanzia per l’agibilità democratica di un sistema, resta un fatto.
Il problema è che poi, con il passare degli anni, si è aggiunto un elemento nuovo, che è andato a peggiorare la situazione: una crisi economica sistemica che ha travolto anche il settore dell’editoria. E dunque, al problema dell’informazione “arruolata”, si è sommato il problema della sopravvivenza economica di tante testate.
Una questione gigantesca, gestita male dai governi (con i tagli ai contributi pubblici all’editoria, mazzata tremenda al pluralismo ed alla qualità dell’informazione) e che ovviamente ha sortito i suoi effetti peggiori sulla pelle di tantissime giornaliste e giornalisti precipitati in una delle forme di precariato più spinto che il mercato del lavoro conosca.
Oltre a questo, c’è stata la concentrazione di alcune delle più importanti testate giornalistiche nelle mani di pochi editori, espressione dell’alta finanza più che dell’editoria pura. E dunque una stampa, già propensa a dare particolarmente ascolto ai sussurri (o ai messaggi espliciti) che arrivavano dal potere politico, si è trovata anche a dover dare retta alle esigenze di potenti ed esigenti editori editori ed anche alla necessità di far tornare i conti.
Il che spesso significa compiacere la pancia di chi legge, fino ad arrivare a fenomeni di “click-baiting” più o meno evidenti. Un disastro, vista anche l’assoluta inerzia dell’Ordine dei Giornalisti rispetto tutti questi temi.
E cosa c’entra l’attore Libero De Rienzo, tragicamente scomparso per un infarto qualche giorno fa e citato nel nostro titolo? C’entra, e non solo perché – tra i ruoli ricoperti nel corso della sua bellissima e purtroppo troppo breve carriera – c’è quello del giornalista Giancarlo Siani.
E’ in corso da qualche giorno una polemica: da una parte alcuni giornalisti e comunicatori che conoscevano De Rienzo, dall’altra alcune testate giornalistiche, tra cui la Repubblica ed il Corriere della Sera. Oggetto della questione, il “trattamento mediatico” riservato alla notizia della morte dell’attore da parte di alcune testate.
Perché soffermarsi sull’eventuale ruolo della droga? Perché quell’interesse quasi morboso nel voler sottolineare che forse De Rienzo è morto per overdose?
Non è che “l’attore di sinistra, duro e puro, trovato con della droga a casa è qualcosa di troppo goloso per l’aridità avida di una categoria che funziona ormai con i trend topic, il Seo, le ricerche su google ma soprattutto con i titoli ad effetto, le fake news o solo il particolare scabroso”, domanda il giornalista Boris Sollazzo in un articolo su “Il Dubbio”?
Non è così, rispondono sia il Corriere della Sera che la Repubblica in due articoli dedicati al tema: “Il compito di un giornale e di un giornalista, però, non è quello di celebrare. Ma di raccontare i fatti. E se la notizia, come in questo caso, è una bustina di eroina trovata nella casa dell’attore, non pubblicarla sarebbe un errore. Grave. E pericoloso. Perché salterebbero i meccanismi di controllo e di imparzialità che sono alla base del rapporto con i lettori”, scrive in particolare Marco Mensurati su la Repubblica.
Ed ecco che, almeno agli occhi di chi scrive, appare un filo rosso che si srotola da Genova nel 2001 ed arriva ad oggi, a Roma, nel quartiere Aurelio, dove Libero De Rienzo è morto. E’ un filo che annoda tante storie, tante vicende in cui l’intero sistema dell’informazione italiana è mancato clamorosamente, o ha sbagliato sapendo di farlo.
Un filo che alimenta la consapevolezza di come un elemento fondamentale della struttura democratica di una società stia venendo sempre meno: l’informazione di qualità, libera, indipendente.
Gli episodi in cui grazie alla stampa si è raggiunta una verità scomoda al potere, qualunque esso sia, le contiamo sulle dita di una mano: ci vengono in mente le storie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, nelle quali il ruolo dei giornalisti che se ne sono occupati ha contribuito ad arrivare alla verità, ed alla giustizia. Ci saranno certamente altri casi, ma sono pochi. Troppo pochi.
Tutto questo, in un momento storico in cui le informazioni indipendenti e di qualità sarebbero invece nutrimento indispensabile per una collettività sempre più ignorante e manipolabile, resa sorda e cieca dalla devastazione dell’istruzione pubblica ed, appunto, dalla “privatizzazione” dell’informazione. Che è un servizio pubblico, anche se erogato da editori privati.
L’appiattirsi sulle veline della procura, delle questure, dei ministeri, dei partiti, degli editori è una caratteristica della stampa italiana da decenni, ma ora la situazione è veramente patologica. La novità di questi giorni potrebbe essere proprio la denuncia di questa situazione, che arriva da una parte stessa del settore giornalistico.
La coincidenza che si sta delineando è curiosa, interessante, e forse anche portatrice di una opportunità: nei giorni in cui si celebra il ventennale del G8 di Genova esplode una polemica sul tema dell’indipendenza, della libertà e della qualità dell’informazione che ha come personaggio centrale Libero De Rienzo, colui che ha regalato il suo volto ed il suo talento al giornalista antimafia – ammazzato dalla camorra – Giancarlo Siani.
Perché non allargare il dibattito, e provare dall’interno a restituire il giusto ruolo e la corretta funzione al giornalismo italiano?
Perché rassegnarsi, come categoria professionale, ad essere strumento di manipolazioni e di profitto quando l’oggetto del nostro lavoro è così socialmente rilevante?
Perché continuare ad essere lavoratori sotto ricatto del precariato, spesso oggetto di diktat degli editori?
Perché vedere le norme relative al giusto compenso essere quasi continuamente ignorate?
Perché accettare di essere strumento di manipolazioni per interessi politici ed economici che vanno molto oltre il rispetto della linea editoriale di una testata?
Perché essere costretti a solleticare i peggiori istinti di lettori, spettatori ed ascoltatori, cercando così click e numeri, ed alimentando il corto circuito dell’abbrutimento dell’informazione?
Perché continuare ad assistere al vivacchiare di un Ordine Nazionale e di un sindacato che, pur consci della situazione, poco o nulla fanno per invertire la tendenza?
Tante domande a cui le risposte non possono che essere collettive. E magari nascere da un dibattito finalmente onesto tra addetti ai lavori che vogliano restituire dignità e funzione sociale al proprio mestiere.
Lo sdegno e la frustrazione provata leggendo i pezzi sulla morte di De Rienzo assomiglia molto a quelli provati leggendo articoli ignobili su Carlo Giuliani, appunto. O narrazioni totalmente sgrammaticate dal punto di vista della verità storica sulla Palestina.
Ricostruzioni tossiche di vicende giudiziarie anche pesanti, come quelle relative alla lotta per la casa: abbiamo letto articoli “manettari” che raccontavano surreali storie di militanti che si costruivano la piscina sfruttando gli occupanti, per poi andare a cercare la notizia delle sentenze di assoluzione in trafiletti in decima pagina, quando c’erano.
Manifestazioni di piazza partecipatissime che sparivano letteralmente dalle cronache, o che apparivano solo per dare spazio ai black block di turno. I No Tav, Sole e Baleno, l’Ucraina, Cuba, il Venezuela, quasi tutta la cronaca giornalistica sui conflitti sociali…
Ne abbiamo tanti, tantissimi di esempi. Oggi arriva la tragica vicenda di Libero De Rienzo: magari sarà proprio questa la goccia che farà traboccare un vaso che, in realtà, è saturo da decenni.
E chissà, sarà anche in suo nome che proveremo – noi, come categoria, collettivamente – a ridare spazio e voce ai “giornalisti – giornalisti”, limitando o annullando le cause politiche, economiche e culturali per cui sempre più colleghi sono costretti a (o accettano di) diventare “giornalisti-impiegati”. O, peggio ancora, giornalisti-stenografo.
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antonio
La “carriera” del giornalista – ahimè – ripercorre e “mutua” quella di quanti (chi?) che scelgono di indossare una “divisa” – una qualunque – purché essa riservi e garantisca: tutela, impunità; appartenenza a un “blocco sociale” o “casta tribale” che sappia svolgere una sua funzione e ruolo che accontenti e soddisfi chi detiene il potere; uno qualunque! l
La “stampa” – sopratutto quella italica” – ha smesso e dismesso da tempo quei vestiti “deontologici” che ignominiosamente indossava, mascherando il suo ruolo di fedele esecutore di ordini altri; sopratutto di pratiche utili a “monsieur le capital” – comunque e dovunque – travestito da editore finto democratico e liberal-liberalista.
Questa e non altra è la banale verità!
Si dice che: “pecunia non olet”!
In questi casi – specialmente nella narrazione giornalistica sulla morte di Libero De Rienzo – è talmente tanfo l’odore nauseabondo delle loro narrazioni, inchieste e comunicazioni falsate dalla loro false se non cattive coscienze e improbabili conoscenze del come si costruisce e si fa …giornalismo vero – che ne svela la natura e la funzione vera e concreta del loro agire, scrivere e …”narrare”!
Tant’è; “…ce dovemo da sta’ !”.
Semmai si dovrà cercare di fare comunicazione “altra” e più sincera e onesta.
Contropiano sta svolgendo questo ruolo e funzione.
Sosteniamolo e rendiamolo ancora più forte e gestibile.
PS: …diceva molto bene G. Gaber nel suo “se io fossi dio” quando – rivolgendosi alla casta dei giornalisti – cantava (ops: diceva): “giornalisti: …dove cogli; cogli sempre bene!” OK
Chi non ha gettato il suo “cervello e il suo sapere” all’ammasso è ora che lo esprima concretamente mettendosi in gioco e assumendosene le responsabilità che gli spettano e competono.
Eros Barone
Qualcuno si fa ancora delle domande sul ruolo dell’informazione nell’attuale fase di decadenza. Giornali, TV e Internet sono complici del processo di imbarbarimento e degenerazione in corso. Definirli prostitute è far loro un complimento: essi infatti, a parte rare eccezioni, non si limitano a vendere il corpo, ma vendono ai poteri costituiti la mente stessa.