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Al voto, certo, anche se il gioco è truccato

State andando a votare, e qualcuno si illude pure di esprimere una scelta personale. Molti ci vanno perché fanno parte di una clientela, oppure perché c’è un parente candidato e non si si può dire di no.

Il rito elettorale è chiamato giustamente così perché, a parte l’ufficialità o la sacralità del gesto, tutto il resto è abbastanza “impuro” (per restare nell’analogia con la religione).

Spacciare il risultato come “verifica” dell’opinione del popolo può essere necessario, ma difficilmente può passare come un criterio “scientifico” che convalida o meno la “qualità” di una proposta politica.

Ciò nonostante si vota e poi si contano i voti.

E qui dobbiamo dire, prima ancora che le urne si chiudano, che il gioco è sempre più truccato.

Possiamo infatti distinguere due grandi classi di voto. Una qualsiasi formazione politica può prendere voti per radicamento sociale, presenza nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle università, ecc, oppure per opinione.

Nel primo caso sono i voti di chi conosce personalmente qualche esponente di quella forza politica, perché lo ha visto all’opera nel suo ambito di vita. Appartengono perciò a questo genere i voti di “apprezzamento e stima”, disinteressati. Ma anche quelli clientelari, obbligati, “di scambio”.

Al secondo genere appartengono i voti dati “per sentito nominare”, come avviene al supermercato, quando si prede sullo scaffale un prodotto pubblicizzato in televisione e si lasciano lì gli altri, meno “battuti”.

Molti anni fa in questa categoria rientrava in parte anche il “voto di appartenenza”. Si votava il partito politico di cui si condivideva l’ideologia, il profilo culturale, le soluzioni programmatiche, lo schieramento internazionale e valoriale.

C’erano comunisti, socialisti, socialdemocratici, liberali, democristiani, fascisti, repubblicani, ecc. L’”opinione” per cui si votava era perciò ricca di senso e di contenuti. Era in parte anche un voto “di radicamento”, perché – data la “struttura di massa” di quei partiti – era abbastanza facile conoscere qualcuno dei suoi iscritti o militanti, e poter insomma verificare la corrispondenza tra quel che un partito diceva e quello che facevano i suoi membri.

Oggi no. I partiti più importanti sono consorterie d’affari che si appoggiano su comitati elettorali. Ogni campagna elettorale è fatta come una campagna pubblicitaria; vengono reclutati “creativi”, con un contratto ad hoc, e quelli devono inventarsi un modo per “vendere il prodotto”.

Ci riescono, perché sono capaci, nel loro mestiere. Ma è ovvio che tra “la confezione” e “il contenuto” non c’è alcun rapporto. La stessa contrapposizione fondamentale che dovrebbe giustificare un voto pro o contro – centrodestra e centrosinistra – è fondata su infime sfumature di grigio intorno a un comune baricentro. Di merda.

Le differenze più pubblicizzate sono quelle inessenziali, che riguardano interessi sociali di gruppi minoritari, spesso giocate contro “i marginali” (come i migranti, che in grande maggioranza neanche possono votare).

Il baricentro è saldamente in mano a un establishment che ha imparato a proteggersi dalle oscillazioni e dai condizionamenti del voto popolare.

Le linee fondamentali delle politiche economiche e sociali sono fissate da trattati internazionali che costituiscono l’ossatura meta-legislativa dell’Unione Europea, e che valgono a tutti i livelli delle amministrazioni pubbliche. Dal governo nazionale all’ultimo dei municipi periferici.

Non c’è sindaco o consigliere comunale che non sappia quel che si può o è vietato fare per restare dentro i vincoli del “patto di stabilità”. Figuriamoci i ministri…

Chi vota per uno qualsiasi dei partiti al servizio dell’establishment (Meloni compresa, ci mancherebbe…) butta il suo voto nel cesso. Si può capire che lo faccia chi c’è dentro, chi ne viene stipendiato o beneficato. Ma chi ne è fuori, perché?

Paradossalmente, ha più senso votare per una clientela (il “voto di scambio”) che non per “l’opinione”, credendo a un messaggio pubblicitario. Se non altro, c’è un interesse materiale…

Perché ricordiamo questa differenza tra il voto di radicamento e il voto d’opinione?

Perché il primo è necessariamente limitato, nei numeri. O meglio, è proporzionale alla quantità (e qualità) degli attivisti, nei territori o nei luoghi di lavoro. E’ un voto fisico, fatto di relazioni e vicinanza, frequentazioni e prossimità.

Quello di opinione – per giunta in un contesto dove tutte le opinioni sono sostanzialmente una, a parte “i dettagli ininfluenti” – è invece un voto virtuale, un derivato della persuasione pubblicitaria, della presenza sul piccolo schermo, anzi proprio del minutaggio concesso nei tg o nei talk show.

E’ questo però il voto maggioritario, sul piano numerico. Ed è qui che “il trucco” diventa palese.

Lo si può vedere da come i grandi giornali – e le televisioni – hanno gestito le elezioni comunali nelle principali città (Roma, Napoli, Milano, Bologna, Torino). Dappertutto hanno deciso che i candidati sindaco – e i partiti, le liste relative, ecc – erano soltanto alcune. Gli altri non sono esistiti, a parte gli “spazi istituzionali” obbligatori (pochi secondi a testa per dire qualche slogan, in orari improbabili e in spazi che qualsiasi persona evita per la triste ripetitività).

A Roma, per esempio, testate come Repubblica o il Corriere hanno sempre parlato di “quattro candidati”. In realtà sono 22, alcuni manifestamente improbabili, altri sicuramente credibili, espressione di forze e soggetti sociali reali, oltre che di “opinioni” niente affatto coincidenti con il “pensiero unico” dei “quattro candidati privilegiati”.

Stesso schema a Milano, ed anche a Torino. A Bologna sono stati sempre e solo due (centrodestra e centrosinistra), visto lo squagliamento dei Cinque Stelle in città. Persino a Napoli è stata presentata una “gara a 4” (centrodestra, centrosinistra, M5S e “la variabile Bassolino”), nonostante una consigliera in carica con l’uscente De Magistris, nonché figlia di vittima della camorra e esponente di una storica famiglia della sinistra locale, sia alla guida di una coalizione comprendente anche Potere al Popolo.

Chiara l’intenzione, insomma. “Chi è fuori dall’establishment non esiste. Anzi, per esserne sicuri, gli impediremo di esistere negandogli qualsiasi accesso al ‘voto di opinione’”.

In conclusione. Nel valutare i risultati, domani sera, bisognerà tener presente questa situazione di partenza. Non farsi infinocchiare dalle solite stronzate (“se non hai eletto nessuno, hai sprecato il tuo voto e il tuo tempo”) e guardare alla differenza tra prima e dopo, nella campagna elettorale.

Potere al Popolo ha allargato il suo radicamento, in queste settimane di campagna senza soldi e tanta militanza attiva. Quei voti andranno “pesati”, non solo contati.

I voti nei quartieri popolari peseranno più di altri, perché sono la base per il futuro. E dopo una settimana – senza neanche badare ai “ballottaggi” tra esponenti della stessa mafia padronale – c’è lo sciopero generale.

Pensiamo a radicarci, a ricostruire i legami con la nostra gente abbandonata da anni; consensi verranno di conseguenza. Per questo, non per uno slogan “più fico” di altri.

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