Il 15 dicembre 1969, Giuseppe Pinelli, ferroviere, ingiustamente accusato per la strage di Piazza Fontana insieme a Pietro Valpreda e altri compagni anarchici, viene ucciso nella Questura di Milano, fatto cadere dalla finestra del quarto piano, quella del commissario Luigi Calabresi.
Un sintetico ritratto tracciato in quegli anni, di fonte anarchica, su chi era il “commissario finestra”, soprannome “guadagnato sul campo” per i suoi metodi di “interrogatorio”, del tutto in linea con una “democrazia” che ordinava di mettere bombe per cercare di fermare l’ondata di masse del “biennio rosso” 1968-69.
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Un giovane uomo di 36 anni, nemmeno molto avanti nella carriera, un semplice commissario. Eppure in quel momento, in tutte le piazze di Milano, era lui il poliziotto più significativo, più importante, quello che si permetteva di redigere a modo suo e di condurre a modo suo tutti gli interrogatori, a prescindere da quello che dicevano i suoi superiori, a prescindere dalla presenza o meno di un qualunque magistrato.
È lui che interroga i compagni arrestati il 25 aprile, è lui che porta i compagni Braschi e Faccioli in campagna e organizza la finta esecuzione di Braschi puntandogli la pistola alla testa e scaricandogli un caricatore vuoto.
E’ lui che fa sedere il compagno Braschi sulla finestra da cui, mesi dopo, cadrà Pinelli. E’ lui che in questo modo si guadagna il titolo di “commissario finestra”.
Quindi non è possibile quello che è stato sostenuto, per la verità con scarso pudore, e per poco tempo, del suicidio di Pinelli. Non sto a tediarvi sulle prove e su quello che è stato prodotto dai compagni come analisi per dimostrare l’impossibilità del suicidio di Pinelli. Sto per parlarvi di questa persona: del signor Calabresi.
Commissario di Pubblica Sicurezza. Su questa persona è stato fatto un film molto bello: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Veramente egli si considerava al di sopra di ogni sospetto, una persona che non poteva essere toccata. Un amante della forza, un amante della violenza gratuita, tipica degli strumenti più stupidi dello Stato.
Su di lui si concentrava tutta la cura e tutta l’attenzione che lo Stato indirizza verso i suoi strumenti. Badate, Calabresi non era un poliziotto come tutti gli altri. Era stato in America, era stato educato alla scuola della CIA, aveva un look diverso, che poteva ingannare, sotto certi aspetti, che ingannava con abilità.
Vi parlo di una persona che mi ha fermato diverse volte, che ho conosciuto personalmente, che poteva ingannare chi perdeva di vista sia pure per un attimo il fatto di avere davanti un nemico, poteva sembrare una persona democraticamente disponibile, capace di citare i testi anarchici, ma, contemporaneamente, capace di sparare il caricatore vuoto di una pistola alla tempia di un compagno. Ecco perché ne stiamo parlando.
Questa persona è presente all’interrogatorio di Pinelli. È dimostrato che era nella stanza di Pinelli. Tutte le santificazioni che cercano adesso di recuperare le legittimità democratiche del povero Calabresi mi fanno ridere. Perché il povero Calabresi aveva una moglie che aspettava un bambino: ma anche i boia hanno famiglia, anche i boia devono dare da mangiare ai propri figli. Quindi non facciamoci impressionare: i boia restano boia, anche se sono padri di famiglia, anche se fanno il mestiere che fanno per dare da mangiare ai propri figli.
Nessuna santificazione, per favore, almeno, da parte nostra, mai. Nessuna giustificazione, nemmeno quella del tempo, il tempo che passa e che fa dimenticare tante cose.
C’è una canzone che dice: “quel pomeriggio eravamo in tremila, in tremila al tuo funerale”, riferendosi al funerale di Pinelli, e forse eravamo più di tremila e tutti quanti, quel pomeriggio, accanto a quella bara, ognuno nel proprio cuore giurò di fare qualcosa, perché quel fatto orrendo, l’orrendo delitto della morte del nostro compagno, non passasse inosservato.
Certo, nella stanza dove Pinelli venne interrogato noi non c’eravamo, io non c’ero. Certo, insieme a Calabresi nella stanza dove Pinelli venne interrogato e torturato c’erano altre persone: brigadieri di Pubblica Sicurezza, tenenti dei Carabinieri.
Certo, non sappiamo quali gesti furono compiuti. Certo, non sappiamo con quali parole e su che cosa, e in che modo si cercò di incastrare il povero Pinelli. Certo, non sappiamo se la scarpa che rimase nelle mani di Panessa apparteneva alle tre scarpe indossate dal cadavere di Pinelli. Non lo possiamo sapere.
Certo, non sappiamo perché l’autoambulanza che doveva portare via il povero Pinelli, ormai agonizzante, giù nel cortile della questura di Milano, venne chiamata, come di fatto risulta dal registro delle autoambulanze, tre minuti prima di quando i due cronisti de L’Unità che si trovavano a passare dal cortile della questura videro cadere quello che a loro sembrò uno scatolone per il modo in cui precipitava a piombo, dritto, sbattendo sui cornicioni dei vari piani della questura di Milano, in via Fatebenefratelli. Questo non lo sapremo mai.
Ma quella sera, quando andammo in tanti compagni, al cimitero maggiore di Milano per accompagnare la bara di Pinelli, tutti e non solo noi che eravamo in quell’occasione presenti, ma anche altrove, in tutte le città italiane, decine di migliaia di compagni avevano la coscienza, assoluta, certa, senza la quale non si può fare nulla di serio nella vita, coscienza perfettamente, rivoluzionariamente sicura di sé, che il responsabile di quella morte, della morte del nostro compagno, era il commissario Luigi Calabresi in carica alla questura di Milano, nell’anno 1969.”
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Maurizio+Cirillo
Calabresi tuo figlio va in televisione a santificarti con il plagio dei media intanto il diavolo ti ha dato riservato un posto affianco al suo al l’inferno
DANIELE TAMBURLINI
complimenti per questa commemorazione, capaci di dire cose che altri, per opportunismo o per mancanza di coraggio, pensano indicibili.