Nel giugno del 1996, casualmente, fu rinvenuto in un deposito del ministero dell’Interno sulla Circonvallazione Appia a Roma, una parte rilevante, disordinatamente ammassata, di ciò che era stato l’archivio dell’Ufficio affari riservati, il servizio segreto civile attivo fino al 1974, ben 600 faldoni per un totale di un milione e duecentomila pagine, incluso l’archivio personale di Silvano Russomanno, ai vertici della struttura (il numero due) dai primi anni Sessanta fino ai Settanta.
In queste carte, non sempre lette con l’attenzione che meriterebbero, si trovano anche le prove inconfutabili dei ripetuti tentativi dell’Ufficio affari riservati di “incastrare” l’anarchico Giuseppe Pinelli come responsabile, insieme a Pietro Valpreda, della strage del 12 dicembre 1969 all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Tentativi durati a lungo anche dopo la sua tragica fine.
Russomanno, non è superfluo ricordarlo, aderente alla Rsi ma anche combattente volontario in un battaglione nazista, in una sua relazione del 28 gennaio 1970, era arrivato non solo ad addebitare agli anarchici una serie di attentati avvenuti a Milano e in altre città a partire dal 1968 (tra questi anche i dieci sui treni tra l’8 e il 9 agosto 1969), che in realtà, come si accertò giudiziariamente erano stati compiuti dalla cellula padovana di Ordine nuovo guidata da Franco Freda e Giovanni Ventura (condannati per questo a 15 anni di carcere), ma che «l’esplosivo» era stato «richiesto da Pinelli» e che era stato «portato a Milano» da «un anarchico spagnolo residente a Bruxelles».
Che si trattasse anche dell’esplosivo «poi usato negli attentati del 12 dicembre 1969», era stato esplicitato in più appunti successivi redatti il 20 febbraio e il 23 febbraio 1970 dal maresciallo Ermanno Alduzzi, capo della squadra di Milano dell’Ufficio affari riservati, che gestiva insieme a Russomanno le confidenze di Enrico Rovelli, nome in codice «Anna Bolena», un infiltrato nel Circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa pagato (anche «150.000 – 200.000 lire», cifre all’epoca tutt’altro che trascurabili) dall’Ufficio affari riservati fin dal 1964, successivamente utilizzato come «fonte stabile», a partire dal 1969, anche dal commissario Luigi Calabresi dell’Ufficio politico della Questura di Milano.
«La pista Pinelli» nacque così, testimoniò in seguito il maresciallo Giuseppe Mango, a lungo in servizio presso la segreteria del direttore dell’Ufficio affari riservati, Federico Umberto D’Amato.
Lo confermò lo stesso Alduzzi molti anni dopo, nel maggio 1997, davanti al pm Grazia Pradella, quando sostenne che Rovelli gli aveva fatto il nome di «Pietro Valpreda» per «i fatti del 12 dicembre», ma anche di «Pinelli» come di colui che era a conoscenza dei retroscena.
Pinelli venne ancora tirato in ballo il 21 novembre 1970 in un appunto sempre dell’Ufficio affari riservati, in cui si riferiva di incontri a casa sua «a fine luglio 1969» prima «degli attentati sui treni», alludendo senza alcun riscontro a sue responsabilità.
D’altro canto si dette nell’occasione come assodato il fatto che «Valpreda o qualcuno dei suoi avesse collocato un ordigno «che non esplose» al «palazzo di Giustizia di Milano» nel luglio 1969. Attentato materialmente compiuto il 24 di quel mese, come si appurò in seguito, da Giovanni Ventura di Ordine nuovo.
Come noto, nella notte fra il 15 ed il 16 dicembre Giuseppe Pinelli precipitò dal quarto piano della questura dopo lunghi ed estenuanti interrogatori condotti fin dalla sera del 12 dicembre. Se non fosse finito in quel modo sarebbe stato il secondo “mostro”, accanto a Pietro Valpreda, accusato della strage di piazza Fontana.
* da Osservatorio democratico sulle nuove destre.
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