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Sanità privata: Il cancro che debilita il Paese venduto come medicina

Sono un giovane chirurgo. Negli anni della mia formazione chirurgica mi sono spostato su tutto il territorio lombardo, lavorando in centri ospedalieri pubblici e privati, in modo da apprendere quanto più possibile da tutte le realtà con cui avevo la possibilità di entrare in contatto.

Sono molto contento della mia professione, e sono contento di esercitarla in Italia. Io sono innamorato del nostro Sistema Sanitario Nazionale, che ha per tutti noi un valore inestimabile.

In Italia, la salute è considerata un diritto universale e, pertanto, lo Stato mi obbliga a prestare cure a chiunque sia in condizioni di necessità, indipendentemente da fattori economici, etnici, religiosi etc (Articolo 32 della Costituzione Italiana).

Questa concezione è tanto radicata nella nostra cultura che spesso la diamo per scontata: purtroppo non lo è.

Il nostro sistema sanitario è in crisi da anni. Formalmente la salute è ancora considerata un diritto, ma la mercificazione delle cure la sta trasformando in un bene, non ugualmente accessibile a tutti.

Lo Stato ha svenduto la responsabilità della cura ad enti privati, che non agiscono, come vorrebbero farci credere, per “migliorare la qualità del servizio”, ma semplicemente per lucrare rivendendoci qualcosa che è già nostro: il diritto alla salute.

Il sistema è corrotto già dalle proprie fondamenta: dal 1992 gli Ospedali, strutture responsabili di un servizio socialmente utile, sono stati trasformati in Aziende Ospedaliere, strutture che invece devono produrre utile.

Ogni Azienda Ospedaliera viene finanziata da fondi regionali, e la quantità del reintegro economico dipende da due fattori: il numero di pazienti trattati ed il tipo di trattamento (grossi reintegri per grossi interventi).

Il paradosso è evidente: non viene considerata la qualità del servizio prestato, il risultato dell’intervento e quindi il beneficio percepito dal paziente.

In questo sistema, il paziente non è più il beneficiario finale della macchina sanitaria, ma un mezzo, una materia prima che io, chirurgo, mi devo procurare per poter effettuare un numero sufficiente di interventi annuali, in modo da ottenere finanziamenti regionali.

Il sistema è ulteriormente corrotto da una dinamica concorrenziale: Aziende Ospedaliere Pubbliche ed Aziende Ospedaliere Private Convenzionate gareggiano tra loro per trattare il maggior numero di pazienti possibili.

I privati sono stati inseriti nel sistema sanitario con la falsa intenzione di migliorare il livello del servizio, seguendo il principio liberista della competizione di mercato. Nella realtà, quella tra pubblico e privato è una competizione sleale: le istituzioni favoriscono grandemente i privati, che non lavorano nelle stesse condizioni del pubblico.

Tanto per cominciare, la Regione non ha nessun controllo diretto sul tipo di prestazioni erogate dal privato. Mentre il pubblico deve impegnarsi a garantire un servizio alla popolazione, rispondendo alle necessità del territorio, il privato può facilmente orientare la propria attività laddove è più remunerativa.

Esempio: negli anni ’80-‘90, Regione Lombardia decise che gli interventi cardiochirurgici meritavano rimborsi economicamente molto sostanziosi. In risposta, su tutto il territorio milanese e lombardo, indipendentemente dalle effettive necessità, fiorirono dal nulla, nelle aziende private, numerosi reparti di cardiochirurgia.

In questo momento storico, invece, una delle nuove “mode” lanciate dalla Regione è la chirurgia bariatrica, cioè la chirurgia per la cura dell’obesità. Inutile dire che i privati ne sono diventati “esperti”.

Questa dinamica è evidente dagli ultimi dati AGENAS lombardi: l’attività chirurgica delle aziende private si concentra in interventi dal più elevato reintegro economico regionale, come operazioni per la cura di obesità, valvole cardiache, od impianto di protesi d’anca e ginocchio, mentre le aziende pubbliche si sono dovute occupare di prestazioni più rischiose ed economicamente svantaggiose – come la gestione delle emorragie cerebrali, dei neonati prematuri, delle leucemie, delle neoplasie dell’apparato respiratorio.

In un sistema basato sulla competizione tra pubblico e privato, il pubblico non può che rimanere indietro.

Non è tutto: anche per quanto riguarda i “costi di produzione”, c’è enorme disparità. Le aziende pubbliche funzionano come tutte gli enti delle istituzioni: assunzioni ed acquisti di materiali avvengono dopo concorsi pubblici e gare di appalto.

Se io, chirurgo operante nel pubblico, devo impiantare una protesi, non posso sceglierne una a mia discrezione tra tutte quelle presenti in commercio. Posso utilizzare solo quelle prodotte dalle aziende che hanno vinto l’appalto pubblico, che ne determina anche il prezzo.

Attualmente, nel pubblico, una protesi vascolare per trattamento dell’aorta addominale costa circa 9.000 Euro. La stessa protesi, nel privato arriva a costare circa 5.000 Euro.

Questo perché le aziende private non devono sottostare agli stessi vincoli del pubblico: i prezzi dei materiali vengono privatamente stabiliti secondo accordi con le ditte produttrici. Se non è concorrenza sleale questa, non so davvero come chiamarla.

Il motivo per cui le ditte produttrici di materiali chirurgici possono permettersi trattamenti di favore ai privati, è molto semplice. A differenza che nel pubblico, nel privato l’azienda può aprire e chiudere dipartimenti chirurgici quando vuole, a seconda dell’interesse economico del momento. Un dipartimento che non effettua abbastanza interventi rischia di essere sostituito da un altro più remunerativo.

Il chirurgo che opera nel privato è molto incentivato a dare indicazioni chirurgiche, perché il suo posto di lavoro dipende dalla casistica operatoria annuale. I volumi operatori dei privati, specialmente per gli interventi remunerativi, fanno sì che le ditte produttrici di materiali possano permettersi di vendere il proprio prodotto a prezzi inferiori, semplicemente perché sanno che ne venderanno di più.

L’azienda ospedaliera non è più l’erogatore di un servizio, ma un pazientificio, costantemente alla ricerca di materia prima (i pazienti) in cui allocare protesi.

Il privato non cerca di fornire il buon servizio, cerca solo il profitto, e le due cose non possono avvenire insieme.

Questa contraddizione è emersa platealmente durante la prima ondata COVID-19 in Regione Lombardia. In quel periodo, operavo in un’azienda ospedaliera privata molto all’avanguardia. Non ho mai più visto in nessun altro posto le stesse tecnologie, mi sembrava di lavorare all’interno dell’astronave di un film di fantascienza.

In questo stesso centro, a due settimane dall’inizio della pandemia, gli anestesisti dovevano passare la propria la mascherina FFP2 al collega del turno seguente, perché, non essendoci abbastanza mascherine per tutti, lo stesso DPI doveva bastare per due persone. Per questo e molte altre mancanze, molto persone sono morte, non solo tra i pazienti, ma anche nel personale sanitario.

Com’è possibile che un sistema sanitario come quello lombardo, acclamato per anni come esempio di efficienza massimale, sia andato in sfacelo in sole due settimane?

Perché per anni la Regione ha sovvenzionato i privati, che non hanno investito i fondi pubblici dove serviva, ma dove era per loro conveniente, e quando il territorio ha espresso un’esigenza, siamo stati impreparati per risorse e mezzi.

Perché un paziente deve attendere tempi irragionevolmente lunghi per ricevere una visita specialistica con la mutua, mentre privatamente viene visitato in tempi rapidi? Nel pubblico la penuria di personale non permette un’attività ambulatoriale che risponda alle esigenze territoriali.

Il chirurgo assunto nel pubblico, inoltre, non è totalmente libero di “recuperare” pazienti lavorando privatamente all’esterno dell’ospedale. All’assunzione, gli viene proposta una sorta di contratto di “non concorrenza” con l’azienda ospedaliera, nel quale si impegna a non prestare nessun tipo di attività medica al di fuori dell’istituto.

Non firmare questo accordo ha diversi disincentivi, in primis un grande detrazione salariale, che avrebbe senso solo in caso di un’attività extraospedaliera parecchio redditizia.

Nel privato non esiste nessun vincolo: al di fuori dell’ospedale il chirurgo può lavorare in quanti ambulatori vuole. Ciò permette di effettuare più visite specialistiche su un territorio più vasto, dando subitanea risposta (a pagamento) alle esigenze della popolazione e procacciandosi un numero maggiore di potenziali pazienti da operare (sottraendoli alla concorrenza).

Il paradosso di questo circolo vizioso è che nel sistema, corrotto ed impoverito dall’atteggiamento imprenditoriale del privato, il pubblico appaia come una macchina lenta, burocratizzata ed inefficiente, mentre il privato, responsabile del danno, passi per dinamico, operoso ed all’avanguardia, vero garante della salute pubblica.

Ciò che viene taciuto in questa narrazione, è che i pazienti che non possono permettersi visite a pagamento vengono discriminati, ricevendo un servizio peggiore. Questo è in palese contraddizione con i nostri valori costituzionali.

L’ultima riforma sanitaria lombarda, che segue le direttive del PNRR, non fa che esacerbare la situazione. Non è prevista alcun piano di assunzione straordinario di personale sanitario, ma solo tecnico-amministrativo.

Viene ancora spacciato come “paritario” il trattamento di strutture pubbliche e private, in un sistema integrativo. Vengono moltiplicate le strutture ambulatoriali sul territorio per esami di primo livello (case di comunità) senza che vi sia il personale pubblico necessario al loro funzionamento. Nei fatti, la sanità territoriale viene svenduta al privato.

La Lombardia non è che l’inizio: le stesse direttive del PNRR verranno attuate in ogni regione.

Il nostro Sistema Sanitario Nazionale è un bene prezioso, ma fragile. Molto è già stato fatto per sovvertirne i valori e tradirne lo scopo. Garantirne la sopravvivenza non è solo nostro dovere etico: è nel nostro interesse. Nonostante tutti i sofismi a cui il mondo ci ha abituato, dobbiamo riconoscere che il SSN non può funzionare seguendo capitalistiche logiche di profitto.

Qui non c’è spazio per gli interessi privati: l’unica vera sanità è la sanità pubblica. Perché nel futuro ogni cittadino possa ancora godere del diritto alla salute, non solo formalmente, è imprescindibile escludere il privato dai giochi.

 * Chirurgo Vascolare – Dipartimento Cardiovascolare ASST OVEST MILANESE – Presidio Legnano

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3 Commenti


  • Andrea Bo

    Grazie dottore.
    Non è solo opportuno, ma è anche necessario che, a trattare argomenti di significativo contenuto tecnico ci si metta chi ne ha competenza.


  • Maria Sammartano

    Grazie x aver avuto il coraggio delle proprie idee lavoro nel pubblico e vedo tutti i giorni quanto descritto anche se la mia regione è il Veneto la storia non è tanto diversa, gli strumenti e il materiale che ci fornisce l’ospedale é sempre più scadente e anche semplicemente per un ecografo siamo costretti ad utilizzare mezzi ormai obsoleti che magari hanno avuto un costo di acquisto a dir poco esorbitante…. Se solo togliessero i lacci della burocrazia ed della gestione burocratico aziendale si potrebbero fare grandi cose nel pubblico per tutti e non per pochi


  • Urbano lega

    Concordo in toto con quello che scrive il medico sulla Sanità; uno dei pochi che ha il “coraggio: di denunciarlo……

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