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Genova: passato e presente della repressione

Le pesanti condanne inflitte, in questi giorni, dalla Magistratura genovese agli antifascisti che contestarono, nel 2019, il comizio tenuto da Casa Pound in città – addirittura un totale di 50 anni di carcere per una vetrina rotta – riportano alla memoria un altro avvenimento simile.

Un passato che, come in un eterno ritorno dal via, sembra non abbandonare mai questo nostro dannato paese.

Giugno 1960. Il governo presieduto dal democristiano Tambroni autorizza lo svolgimento a Genova (medaglia d’oro alla Resistenza) del sesto congresso del Msi.

Il contesto storico-politico ci racconta che il dicastero Tambroni fu un monocolore Dc, la cui fiducia reggeva sull’appoggio esterno dei post-fascisti missini.

Questo, ad appena quindici anni dalla caduta del Duce.

D’altra parte, il Pci, poco prima, aveva sostenuto, proprio assieme al Msi, la giunta regionale siciliana, presieduta dall’esponente democristiano dissidente Silvio Milazzo.

Alla cui spregiudicata manovra, capace di tenere insieme, in quegli anni caratterizzati da un forte e sentito scontro ideologico, addirittura fascisti e comunisti, si deve il conio del neologismo milazzismo.

Quella decisione, era stata difesa in parlamento nientepopodimeno che dal compagno Ercoli.

Ragion per cui, non smetteremo mai di ringraziare Togliatti per i suoi infiniti errori politici nell’Italia del dopoguerra.

A partire dalla fin troppo generosa amnistia a gerarchi e persino torturatori, mentre ricopriva lo strategico ruolo di Guardasigilli.

Ma torniamo a Genova…

Alla notizia del Congresso della Fiamma Tricolore, la città, chiaramente, si oppose.

Un Pertini non ancora convertito, dallo scranno quirinalizio, all’ipocrisia della ragion di Stato e alle sue logiche repressive, tenne un duro comizio contro il governo e la decisione di far svolgere quel nero convegno a Genova.

E così, il 30 giugno, si tiene una manifestazione tesa, ma tutto sommato senza problemi.

Al termine della quale però, a Piazza De Ferrari, la situazione precipita.

Alcuni manifestanti, lì defluiti, intonano canti resistenziali e fischiano le forze dell’ordine presenti.

Le quali, immancabilmente, caricano con violenza.

Risultato: arresti e feriti.

Ed è a questo punto, che le analogia con l’attualità si fanno inquietanti. Vediamo:

«Nel processo che seguì gli scontri vennero imputate 43 persone, di cui 7 già agli arresti. La Corte di cassazione decise lo spostamento del processo a Roma. Gli imputati, difesi dal senatore Terracini, e supportati durante la durata del processo con raccolte di fondi dall’ANPI, verranno quasi tutti condannati nel luglio 1962: ci furono 41 condanne, per pene massime di 4 anni e 5 mesi.

In un caso, quello di Giuseppe Moglia, la condanna sarà di un solo mese e mezzo, nonostante l’imputato fosse stato trattenuto in carcere da ben due anni. Il processo riguardò i soli manifestanti, nessun processo venne mai fatto per valutare l’operato e le responsabilità degli appartenenti alle forze dell’ordine che parteciparono a quegli scontri». Fonte Wikipedia.

In pratica, a parte le affinità sul numero degli imputati e le condanne – quelle più severe furono della stessa entità di quelle comminate, oggi, agli antifascisti – è l’omologia del clima politico, sociale e giudiziario a colpire.

Allora come ora, difatti, la normalizzazione sociale rappresentava, e rappresenta, un dogma statuale irrinunciabile.

Con gli apparati repressivi che agivano, e agiscono di conseguenza, con inaudita ferocia, tanto in piazza quanto nelle aule di tribunale.

E con un atteggiamento di impunità auto assolutoria che definire anti-democratico pare quasi bonario.

I gendarmi del Capitale furono trattati, ieri, con i guanti bianchi, senza subire alcun procedimento penale.

Mentre oggi, benché a differenza dell’epoca si sia celebrato un processo, i rappresentanti delle Forze dell’Ordine – che hanno manganellato a freddo e con sadico piacere i manifestanti, ma hanno “esagerato” pestando anche un cronista di Repubblica – dovrebbero scontare, il condizionale è d’obbligo, se la sentenza di primo grado verrà confermata (ma nutriamo forti dubbi), 40 (dico quaranta) giorni di carcere.

Ridicolo solo a sentirsi!

In altre parole, quello che si vuol dire, è questo.

Dopo sessant’anni, la dottrina reazionaria, repressiva e di continuità con i dispositivi dello stato fascista – la Giornata del ricordo per le Foibe, come si dice altrove, costituisce un esempio più che eclatante di tale continuità sul piano culturale – dottrina, sottolineamo, di chiaro stampo securitario liberal-borghese, non ha mutato in alcun modo il segno del suo comando.

Anzi, quel dominio, al presente, è pressoché completo.

Dal momento che, causa sconfitta epocale delle rivoluzioni novecentesche, con conseguente arretramento del movimento comunista, non esiste quasi più opposizione sociale.

Men che meno conflitto. Bannato addirittura sul terreno della psicologia di massa.

Se prima l’Anpi si mobilitava, oggi ha meschinamente taciuto. Insieme alla Cgil landiniana.

Dalle piazze, le lotte sono pressoché scomparse. O, quando si fanno, si tengono in sordina.  Vertenziali, settoriali e scollegate tra loro.

E se qualcuno alza la testa, è “la sinistra” stessa a tagliargliela, o a suggerire di farlo.

Insomma, un paese bloccato e annichilito da vent’anni di fascismo, quaranta di scudo crociato, venti di berlusconismo.

Centocinquanta di Leviatano liberale. E duemila di clero. Una Legge che non si è mai fatta Diritto.

Ma solo Legalità ad uso e consumo delle classi dominanti. D’altronde, abbiamo ancora in vigore il Codice Rocco.

E sullo sfondo di questa crudele Storia patria, in chiaroscuro, si scorge Genova.

Crogiolo di rivolte e laboratorio di repressione. Ricordando Carlo e Via Fracchia!

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