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Che fine hanno fatto i “professionali”? Storia di una maturità

L’istruzione è stata smantellata pezzo a pezzo negli ultimi trent’anni almeno. È stato raccontato più volte dalle pagine di questo giornale. Dall’autonomia scolastica fino al PNRR e al D.L. 36, convertito in Legge dal governo appena caduto, che forzano in modo inedito il definitivo asservimento della scuola alle imprese.

È stato detto anche su Contropiano qualche giorno fa in modo molto chiaro. Ed è evidente a chiunque conosca un po’ l’evoluzione e la storia della scuola degli ultimi anni come questo asservimento abbia riguardato soprattutto l’istruzione professionale (ancor più di quella tecnica).

Non potrebbe d’altronde che essere così: è dagli istituti professionali che esce quella classe lavoratrice ipersfruttata, a bassa formazione culturale e iperprecaria, tanto richiesta dal “tessuto produttivo italiano ed europeo”.

Quello che voglio provare a raccontare è cosa si vede della formazione professionale a capitarci quasi per caso, come presidente di commissione di maturità, per di più a maturità avviata (il covid, non lo dice nessuno, ma nelle commissioni d’esame ha continuato a creare enormi problemi) e in un serale, un serale di meccanici motoristi e manutentori.

Il contesto, va brevemente ricordato, è quello delineato dalle grandi riforme degli ultimi anni, con il decreto 61/2017 (poi divenuto legge), i Decreti Ministeriali che l’hanno seguito nel 2018 e 2019 e le Linee Guida, allegate al Regolamento del 2018.

Siamo di fronte a un sistema in cui è possibile passare dalla Formazione Professionale Regionale (IeFP) a quella statale (IP) ad ogni anno di studio e viceversa e che permette a chi esce dai quattro anni regionali di accedere al quinto anno del percorso statale per acquisire il diploma.

Sono i professionali dei Progetti Formativi Individuali, che significano poi sostanzialmente la possibilità di andare in azienda e non a scuola fin dal secondo anno di scuola superiore (a 15 anni). Dove l’apprendistato è la norma fin dalla seconda, nei fatti. Dove molte ore che dovrebbero essere di scuola sono di lavoro.

È il contesto dove gli studenti provenienti dall’IeFP spesso e volentieri non hanno mai fatto una vera ora di storia o di italiano e dove queste sono estremamente penalizzate anche nei percorsi statali. Dove i laboratori sono spesso non all’altezza di quanto si fa in azienda (gli studenti che ho esaminato possono lavorare con macchine utensili CNC, controllate da dispositivi elettronici integrati, macchine molto costose), non perché la scuola resti indietro a livello di preparazione (d’altronde i colleghi di materie professionalizzanti, incontrati in questo esame, in gran parte precari e decisamente preparati, sono quasi tutti immersi anche nel mondo del lavoro esterno alla scuola), ma perché una scuola definanziata non può certo permettersi macchinari di quel tipo.

Dove le aziende hanno rapporti costanti con le scuole, cui attingono, per ottenere manodopera gratis o a basso costo, con la promessa di una stabilizzazione futura (promessa, va detto, che non sempre è una bugia, ma che non giustifica quello che nella sostanza è sfruttamento minorile). Questo è il contesto dei professionali.

I ragazzi e gli uomini (una sola ragazza, come c’era da aspettarsi) che ho esaminato con la commissione avevano frequentato la scuola serale. Un tipo di scuola in via di estinzione, considerata più un costo che una risorsa e un servizio dagli istituti dove è ancora presente, quindi difficile da rintracciare (alcuni studenti facevano anche un’ora e mezzo di viaggio sui mezzi ad andare e a tornare per frequentare la scuola e spesso frequentavano un ultimo anno non coerente con il precedente percorso di studi), nata per accogliere quei lavoratori che decidono di accedere a quell’istruzione cui per mille motivi non hanno avuto accesso in gioventù. Ma è ancora così?

Qualche lavoratore adulto ha dato l’esame con noi: padri di famiglia, per lo più stranieri, che con il diploma possono acquisire ruoli in azienda ormai preclusi a chi non ha il diploma superiore, per quelle stesse regole e logiche europee che poi impoveriscono miseramente la qualità della loro formazione.

Per lo più però ho visto sfilare davanti a me ragazzi giovani, che avevano perso anni nelle scuole diurne, “scarti” di istituti tecnici e, a volte, anche professionali, oppure ragazzi che avevano scelto la IeFP e poi hanno fatto il passaggio all’Istituto Professionale continuando a lavorare.

E che ragazzi erano? Ragazzi che conoscono il mondo del lavoro, per lo più con vite faticose e lavori duri. Ragazzi che spesso però non avevano avuto modo di costruire la propria formazione umana e culturale, a fianco di quella professionale.

Ragazzi cui il collega di italiano aveva dovuto insegnare a scrivere in modo almeno accettabile nella loro lingua madre (a volte), in una lingua seconda mai acquisita completamente in altri casi (i ragazzi di origine straniera sono moltissimi in questi corsi, per quella logica di integrazione verso il basso, che vuole braccia e non uomini e donne, che l’ha purtroppo avuta vinta in questo paese).

Ragazzi che a volte avevano studiato la storia per la prima volta in quinta, perché i percorsi personalizzati, le scelte dei Centri di Formazione Professionale, i loro percorso spezzettati, avevano impedito loro di frequentare un numero minimo di ore di storia e di studiarla.

Ragazzi difficili, con vite dolorose. Ragazzi, a volte, di una fragilità devastante, loro che i colleghi mi hanno detto essere stati così spavaldi in corso d’anno, imbevuti, quando andava bene, della logica della “azienda mia che voglio aprire”, in un mondo globalizzato che sta distruggendo l’ideale tutto italiano delle piccole imprese, e, quando andava male, presi dal mondo delle criptovalute, degli investimenti on line (in cui investivano i loro sudati stipendi), alla disperata ricerca di quel successo individuale, di quell’essere speciali che questa società gli propina come il solo modo per sentirsi esseri umani di un qualche valore.

I più bravi lavorano tutti in aziende all’avanguardia, che si occupano di settori di nicchia, o del settore del lusso. I più fortunati hanno datori di lavoro che li stanno “crescendo”, investendo nella loro formazione, che li hanno spinti a diplomarsi, che ci tengono che apprendano (certo finché le cose e gli affari vanno bene…), qualcuno coronerà a breve il sogno di fare il meccanico in una squadra di auto da corsa, qualcuno vedrà l’apprendistato trasformato in contratto a tempo indeterminato, qualcuno andrà alle ITS Accademy, dove si specializzerà ulteriormente, sempre e solo secondo quanto richiesto dal tessuto imprenditoriale locale, qualcuno ha scoperto in quinta che a lui piacevano italiano e storia, molto più della meccanica, peccato che la scuola sia finita.

Tutti svolgono un numero di ore di lavoro che non corrisponde a quanto scritto sul contratto, la maggioranza era commossa e triste nel lasciare quel contesto scolastico: i compagni, i professori, che in qualche modo facevano da paracadute in una società che li può fare a pezzi in un minuto.

E sono fortunati, perché vivono nell’hinterland di una grande città del nord, dove per ora il tessuto produttivo tiene. Sono fortunati perché i colleghi con cui ho fatto l’esame erano tutti docenti seri, coinvolti, presenti, preparati, appassionati. Non è sempre così.

Quello che ho visto, da docente comunista, è la classe lavoratrice, la classe degli sfruttati, che ancora cerca nella scuola un riscatto (anche da scelte sbagliate, dalla mancanza di saggezza e controllo della prima adolescenza) e a cui la scuola offre lavoro, sfruttamento e troppo poca cultura, troppo poca scuola, troppo poca formazione.

Quello che ho visto sono studenti che la scuola italiana non sa tenere, interessare, appassionare e quindi respinge, invia alla Formazione Regionale, dove però troppo spesso si perde quella possibilità di formazione umana e culturale necessaria a operare scelte ragionate nella vita.

Quello che ho visto è una classe lavoratrice atomizzata, ridotta ad individui singoli, illusa dall’individualismo capitalista, cui dobbiamo tornare a parlare del senso della propria funzione di classe che produce la vera ricchezza del paese, cui dobbiamo tornare a parlare di diritti sociali: a un lavoro dignitoso, che non si mangi 10 ore ogni giorno, a una casa, a una socialità non consumistica, a costruirsi un futuro sicuro; cui dobbiamo tornare a parlare del diritto all’istruzione, alla cultura e anche ad un rapporto con il lavoro che non sia quello dello sfruttamento capitalistico, un rapporto con la cultura e il lavoro che possa emancipare e non schiavizzare.

* insegnante, Esecutivo Nazionale USB Scuola 

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1 Commento


  • Mira

    Diagnosi accurata e veritiera. La Scuola dovrebbe colmare le diseguaglianze e invece, negli ultimi 30 anni, i governi hanno fatto di tutto per ampliarle.

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