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Giulio II, i ravennati e la monnezza a Roma

1.

Con la fine dello stato di emergenza Covid, nonostante il cruento conflitto che dilania russi e ucraini, sembra che il flusso dei turisti, che inonda la città di Roma, sia ritornato ai livelli precedenti alla fase acuta e pervasiva della crisi pandemica.

Il traffico aereo ha subito un notevole incremento: ogni giorno, le compagnie aeree di tutto il mondo scaricano migliaia di passeggeri, molti dei quali soggiornano nella capitale, per visitare le piazze, i musei, gli incantevoli reperti archeologici e per provare a rivivere l’esperienza di tuffarsi in antiche atmosfere. Flotte consistenti di visitatori nazionali e internazionali, prendono la direzione Ostiense, per immergersi nel Parco archeologico di Ostia Antica.

Ma non appena escono dalla stazione della metro, nel percorrere una stradina chiusa al traffico che costeggia il Parco dei Ravennati, si trovano davanti ai loro occhi uno spettacolo che li lascia perplessi: la spazzatura disseminata tra le erbacce e le sterpaglie che contrasta con la bellezza delle maestose pigne che ammantano il castello di Giulio II.

I viaggiatori, sotto la pressione dei tour operators, in genere, non trovano il tempo per ammirare il grazioso borgo e tirano dritti verso gli scavi, là dove, spesso, incontreranno una guida locale, pronta a inebriarli con una narrazione che rievoca gli antichi fasti e splendori del primo porto di Roma.

Nel ritrovarsi in uno dei siti archeologici più grandi del pianeta, come al solito, apprenderanno il nome di un illustre monarca come Anco Marzio, ma continueranno a ignorare l’utilizzo dei prigionieri rinchiusi nel castello e impiegati ai lavori forzati per portare alla luce i primi rinvenimenti dei reperti archeologici, portati avanti e sostenuti, in prima battuta, da Pio VII (1800-1823) e successivamente da Pio IX (1846-1878), sino alla breccia di Porta Pia, nel 1870. Così come, difficilmente, le loro menti intercetteranno la storia dei braccianti romagnoli, chiamati a bonificare i territori di Ostia e Maccarese, per debellare la malaria.

In piena epoca rinascimentale, gli interessi del potere temporale del papato furono indirizzati al controllo della ripresa dei traffici commerciali lungo l’ultimo tratto navigabile del Tevere e sulle saline che si trovavano in prossimità di quest’area. Da qui il bisogno di costruire un borgo sulle rovine di Gregoriopoli e un castello che lo proteggesse dalle “incursioni straniere”.

La fortezza contro gli “invasori” fu completata da Giuliano della Rovere, ovvero da Giulio II, il “Papa guerriero” che esercitò un forte fascino su Machiavelli, tanto che gli dedicò una sezione di un capitolo de Il Principe.

Quest’uomo, agli occhi di Machiavelli, incarnava la figura del principe ideale, era ambizioso e aggressivo al punto giusto, agiva senza troppe paure e procedeva «in modo assennato, con prudenza e umanità evitando così sia un eccesso di fiducia che lo rendeva incauto, sia l’eccesso di diffidenza che lo rendeva intollerabile». (1)

Fortuna e virtù si amalgamavano insieme; dire che possedeva gli attributi era un eufemismo per intendere che aveva le palle per governare. Sulla scia di Alessandro VI, riuscì a neutralizzare le lotte intestine dei baroni romani, a contenere i tumulti scatenati dai cardinali, e alla guida del suo esercito riprese i territori della Romagna, conquistò Bologna e cacciò i francesi dall’Italia.

Semmai esistano dei limiti, per questo genere di principati, Machiavelli non preferisce addentrarsi, sarebbe un’azione presuntuosa e temeraria quella di spiegare la coesione interna di questi sistemi che si fondano su credenze divine.

Ma ciò che Machiavelli pone in evidenza, da un lato, è la sfacciataggine con cui il pontefice sfodera il suo potere materiale e si candida, in qualche modo, a monarca nazionale, avendo come riferimento le potenze europee già costituite, dall’altro, evidenzia che Giulio II «fa ogni cosa solo per la potenza della Chiesa e non per i suoi interessi privati».(2)

Il bene dello Stato viene prima degli interessi particolari dei governati (sudditi) e delle varie fazioni interne in lotta tra di loro, pertanto il principe dev’essere astuto, forte e per raggiungere i propri scopi può diventare spietato, spregiudicato, scorretto e malvagio.

Cosa può fare, per affrontare la sorte avversa?

Può tentare di costruire un argine al fiume in piena degli eventi storici.

Qualche decennio dopo la scomparsa di Giulio II e Machiavelli, a livello nazionale si resero conto che la divisione in tanti piccoli staterelli impediva di costruire un argine politico, mentre a livello locale, una devastante inondazione deviò il corso del fiume Tevere, dando luogo a una lenta formazione di paludi malariche che di fatto ostacolavano la vita nel borgo rinascimentale di Ostia Antica.

Lo splendore e la ricchezza dei piccoli Stati rinascimentali furono fortemente ridimensionati, non solo per il fatto che il Mediterraneo perse la centralità dei traffici commerciali, in seguito alle nuove scoperte geografiche, ma anche per l’incapacità dei vari “Signorotti” della penisola di trovare un accordo che consentisse di costituire “una società di società”.

Tale passaggio è spiegato bene da Montesquieu quando fa riferimento alla capacità di individuare «una convenzione in base alla quale numerosi corpi politici consentono a divenire parti di uno Stato più grande che tutti insieme intendono formare». (3)

Il diventare una grande potenza, purtroppo, non elimina i rischi e i pericoli che sorgono al suo interno. Su questo punto Montesquieu è in linea con Machiavelli: esiste un duplice inconveniente che pervade democrazie e aristocrazie: «il male è nella sostanza delle cose, non esiste alcuna forma di rimedio», (4) se non quello di allentare la sovranità di un singolo Stato, quando quest’ultimo diventi troppo forte, o di unirsi agli altri Stati, nel momento in cui ci sia il tentativo di un altro Stato di prevalere e dominare.

Per il resto, io direi che il teorico della separazione dei poteri si emancipa dalla cosiddetta visione machiavellica delle relazioni umane. In un certo senso il suo pensiero supera la ricerca forsennata dello spirito nazionalista, quando scrive quella perla arcinota: se sapessi una cosa utile alla mia nazione, ma che fosse dannosa per un’altra, non la proporrei al mio principe, poiché sono un uomo prima di essere francese, o meglio, perché io sono necessariamente un uomo, mentre non sono francese che per combinazione.

Quello che è stato definito “un dialogo agli inferi” tra Machiavelli e Montesquieu continua anche ai nostri giorni: Erdogan appoggia la Sant’Alleanza, ossia concede il via libero all’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO. In cambio ottiene la patente per reprimere il popolo curdo.

Il Governo Sanchez II, sostenuto da una coalizione di centro-sinistra, sacrifica i diritti del popolo saharawi, a lungo vessato dal regime di Mohammed VI, e in cambio ottiene la repressione dei migranti da parte dei gendarmi marocchini, repressione sfociata nella strage di Melilla.

2.

Questo filone narrativo, caratterizzato da una stridente retorica, mette in secondo piano, oscura il tema dei diritti sociali, o meglio, è un approccio che continua a esaltare o far risaltare la cultura dei grandi Condottieri, dei Generali illustri, dei Signori delle città, dei capi di Governo e dei loro azzecca-garbugli e così via dicendo, come se il flusso degli avvenimenti storici fosse il risultato di singoli individui o di un pugno di eletti.

Ecco perché ho richiamato una storia collettiva, una storia di uomini e donne che sfuggivano dalla povertà e dalla disoccupazione e approdarono nell’inferno delle paludi dell’Agro Romano, armati di carriole, vanghe, badili e dell’esperienza già acquisita in Romagna per la costruzione di opere idrauliche. Scavarono 22 Km di canali, prosciugarono terreni acquitrinosi e malsani.

Andrea Costa volle ricordare quei braccianti come un “esercito di pace” che restituì alla coltura, all’igiene e in generale alla civiltà del lavoro quelle aree che «ignavia di principi e prelati ed inerzia colpevole dei Governi», per più di tre secoli, avevano consegnato al troneggiare della malaria.

L’accoglienza dei ravennati non fu né calorosa né cordiale, erano visti come sovversivi, anticlericali e delinquenti, sebbene avessero accettato di lavorare in subappalto, per l’impresa Angeletti che si era aggiudicata la gara per prosciugare le paludi del Litorale Romano, e di lavorare in un luogo inospitale: dei 500 braccianti che partirono da Ravenna, nel primo anno di permanenza in questo putiferio, ne perirono 100.

Molti di loro vollero tornare indietro e in questo senso Nullo Baldini non ebbe vita facile a persuaderli di rimanere e portare avanti il progetto che avevano lanciato nella loro città di origine.

In realtà, le condizioni di provenienza non erano affatto idilliache, in Romagna, la rivoluzione dei trasporti aveva mandato in frantumi il sistema di produzione delle risaie: il prezzo di questo cereale, per effetto della concorrenza dei paesi asiatici, scese così in basso da non essere più remunerativo, di conseguenza i proprietari terrieri passarono dalla coltura arativa a quella prativa, con il risultato che c’era meno bisogno di forza lavoro, quindi i mezzadri furono trasformati in braccianti agricoli e utilizzati all’occorrenza.

Aumentarono il numero dei salariati e degli operai stagionali, la disoccupazione prese il sopravvento e con essa la miseria avvolse la comunità che basava la sua riproduzione sulla raccolta del riso.

Dal Censimento del Comune di Ravenna si evince che: «dal 1871 al 1881 il numero dei braccianti era passato da 500 a 9.589». (5) La paura degli scioperi, della rivolta contro le classi benestanti e la possibilità che gli operai si riunissero, fecero in modo che le istituzioni optassero per la realizzazione di grandi opere pubbliche, per mezzo delle quali si poteva imbrigliare la forza lavoro potenzialmente pericolosa se lasciata inoccupata.

La penuria di lavoro stimolava la concorrenza fra il crescente numero di salariati; i forti ribassi praticati dalle imprese per aggiudicarsi gli appalti delle opere di sistemazione del territorio determinarono un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. In questo contesto nascevano le prime forme di mutualismo operaio: nel 1883 venne alla luce, a Ravenna, l’Associazione Generale degli Operai e dei Braccianti, con lo scopo di difendersi dai raggiri degli appaltatori.

Nel far riaffiorare quest’affresco di vita e lavoro in comune, non ci sono tentativi nostalgici, per lo meno non prevalgono, ci sono, invece, desideri e intenti che spingono nella direzione di vedere «le cose e le loro immagini concettuali essenzialmente nel loro nesso, nel loro concatenamento, nel loro movimento, nel loro sorgere e tramontare». (6)

Dunque, non solo competenze idrauliche e lavoro di squadra, ma i ravennati portarono anche le esperienze organizzative che avevano maturato in Romagna: ogni socio prendeva una paga uguale, se uno di loro si ammalava, non perdeva il salario, se la malattia diventava invalidante, si organizzavano raccolte di fondi per aiutare la famiglia caduta in disgrazia.

La diffidenza della Roma cinica e papalina, ben presto iniziò a dissolversi quando si cominciò a percepire l’utilità sociale e l’importanza dell’opera che stavano realizzando, un’opera il cui manifesto esplicito non era solo la condivisione e l’espletamento del lavoro comune, allo scopo di rendere vivibile un ambiente insalubre alle porte della capitale della neonata Monarchia italica, ma anche il rafforzamento della consapevolezza che si potesse affrontare il problema della disoccupazione, provando a incidere sulle circostanze esterne avverse.

Ed è proprio sulla sintesi di questi valori, a mio avviso, che “i socialisti della repubblica di Utopia”, così come sono stati definiti, trovarono la forza e il potere di coniare monete e stampare banconote, precisando che tale denaro, in un primo momento, aveva una funzione interna alla colonia agraria. Successivamente la sua validità fu estesa alla sola provincia di Roma.

3.

Ma veniamo al punto dal quale siamo partiti. Il castello che prende il nome di Giulio II, con qualche ristrutturazione della Soprintendenza dei Beni Culturali, rimane nel suo fossato, è chiuso al pubblico e si paga un biglietto per entrare. Al contrario, il Parco dei Ravennati è uno spazio aperto che rientra nella gestione del verde urbano da parte di Roma Capitale, ma è lasciato all’incuria, al degrado, anche se si trova in prossimità degli scavi archeologici.

Di sicuro c’è lo zampino dei “teppisti della spazzatura”, ovvero di coloro che riescono, per vie traverse, a evadere il pagamento del tributo, quindi si divertono a disperderla in quei punti che sono considerati terra di nessuno, ma anche lungo le piazzole di sosta delle strade, in prossimità della raccolta del vetro e degli indumenti della Caritas, ma non è una risposta sufficiente al problema della monnezza a Roma, che si sta trasformando in una specie di calamità naturale e perenne.

Se il secchione che si trova nel parco è stracolmo dev’essere svuotato, e per farlo, a meno che non si brevetti una macchina che effettui tale attività oppure sorga un’associazione di volontari e si prenda cura di un determinato luogo, è necessario ricorrere al lavoro salariato, ai netturbini o collaboratori ecologici, altrimenti arriva il vento e disperde la monnezza nell’ambiente.

A un’emergenza ne segue un’altra, si alternano le amministrazioni comunali di diverse composizioni politiche, si scrivono Piani d’intervento. In quasi tutte le feste rionali di varie organizzazioni politiche, il tema della spazzatura non manca mai, vengono interpellati studiosi ed esperti stranieri per dire che Roma seguirà il modello virtuoso di un’altra città (vedi raccolta differenziata di San Francisco, 2012), non mancano gli impegni solenni, l’ultimo, quello di Gualtieri, è grottesco: pulizia straordinaria della città nei primi 100 giorni!

Il flop della sua Giunta è evidente, si trova in grosse difficoltà, ma l’imbarazzo più grosso lo vivono le guide turistiche, gli albergatori, i taxisti e altri operatori che accolgono quel fiume di persone che si dirama, per lo più, nell’area del Tridente.

Per non parlare degli abitanti che ormai sono esasperati e iniziano a pensare che il problema dei rifiuti sia irrisolvibile, qualcosa che somiglia sempre di più a un’alluvione perpetua, che determina un doppio sacrificio: pagare la TARI all’AMA e vedere il sudiciume davanti alle proprie abitazioni.

C’è una dimensione ancora più spiazzante sul tema della spazzatura a Roma, un aspetto antropologico della componente gestionale della città che si fonde con il buttarla in caciara, con il creare scompiglio e caos, con il dar vita a una specie di alone all’interno del quale il simpatico si confonde con il brutto e zozzo, l’ordine con il disordine, il legale con l’illegale, che non significa riconoscere l’ambivalenza nelle cose e nei rapporti sociali, ma esprime la sintesi della confusione.

I famosi personaggi recitati dal grande Tomas Milian ci forniscono un indizio di quello che è diventato un rebus ingarbugliato: er Monnezza è un ladro che collabora con la giustizia, mentre Nico Girardi è un ex ladro diventato poliziotto. Si, perché a Roma, lo scarto, l’immondizia si chiama monnezza.

Nel linguaggio anglofono, per dire che un’idea, un pensiero, una qualsiasi cosa non serve a niente, utilizzano la parola rubbish, ma non credo che tale sostantivo sia diventato il nome di un famoso personaggio cinematografico.

La suddetta commistione è solo un elemento concomitante del problema o aggiuntivo, per confondere le acque, in qualche modo, contribuisce a inasprire le difficoltà croniche dell’AMA S.p.A. con socio unico: il Comune di Roma.

Alla base di quella che potrebbe essere definita una catastrofe ecologica ci sono due variabili chiave strettamente interconnesse tra di loro: l’eccesso di produzione di beni materiali e immateriali e la svalutazione o deprezzamento del lavoro, in particolare di quello manuale.

La tendenza all’incremento costante dei rifiuti solidi è sotto i nostri sensi, la percepiamo nel fluire del tempo dentro le nostre case, è sufficiente effettuare una semplice retrospettiva sulla quantità di plastica che accumuliamo rispetto a pochi anni fa.

A livello mondiale, la produzione di rifiuti solidi si attesta intorno a 2,1 miliardi di tonnellate all’anno e si prevede un incremento del 70 %, entro il 2050, stando agli incrementi di produttività collegati all’introduzione di nuove tecnologie e alle più efficienti combinazioni di capitale e lavoro.

A ciò dobbiamo aggiungere altre importanti implicazioni: riduzione del lasso di tempo in cui si realizza il ciclo di vita dei prodotti; la non convenienza economica a riaggiustare una serie di prodotti, in quanto i costi di riparazione si avvicinano a quelli dei prodotti nuovi; difficoltà ad aprire le nostre menti sull’importanza delle pratiche che rientrano nelle cosiddette cinque erre: ridurre, riutilizzare, riciclare, recuperare e razionalizzare.

Sebbene i dati della raccolta differenziata non siano incoraggianti (intorno al 44 % nel 2021), nei quartieri dove viene praticata, qualora non si verifichino intoppi agli impianti di stoccaggio, la situazione è migliore. Ma questo non cambia il quadro osservabile: discariche abusive, intere aree verdi, che delimitano i popolosi Municipi di periferia, sarebbero da bonificare.

Ma il principe è nudo, è incatenato dai debiti e lo nasconde, è succube della rendita fondiaria e finanziaria, (7) si affida al mercato. Sembra che lo spettacolo indecoroso a cui si è assistito nello scorso mese di giugno nel centro storico sia dovuto al mal funzionamento della raccolta relativa all’utenza non domestica che AMA ha subappaltato a quattro imprese esterne.

Come rileva il Roma Today, all’AMA mancano uomini e mezzi, quindi per pulire il centro invaso dai rifiuti spostano i netturbini dislocati nelle periferie, mentre uno studio della Cgil Roma calcola un fabbisogno di 1.500 lavoratori e lavoratrici per assolvere al contratto di servizio.

A fronte di un aumento della quantità di rifiuti prodotti, l’AMA, nel quinquennio che va dal 2015 al 2019, ha ridotto il budget destinato ai costi del personale, tagliando 500 posti di lavoro, passando da 8.000 a 7.500 addetti. (8). Il servizio di raccolta differenziata, com’è noto, richiede una presenza capillare sul territorio, quindi ingenti risorse, le quali sono state ottenute, in larga misura, con il taglio e conseguente peggioramento del servizio di pulizia e igiene urbana: un travaso di personale da un servizio all’altro di circa 2.000 unità.

L’AMA continua ad esternalizzare i servizi più complicati a imprese o cooperative che taglieggiano la manodopera sul piano economico e quello dei diritti, mentre a Roma gradiscono il ritorno del flusso dei turisti a livelli pre-Covid, ma non riescono a smaltire i rifiuti che producono.

I dati di provenienza Telco ci dicono che in media nel Comune di Roma si aggirano 230.000 turisti al giorno, il 51 % dei quali sono stranieri, che hanno iniziato a inviare per il mondo fotografie con cumuli d’immondizia nei pressi di monumenti d’interesse storico, architettonico e archeologico.

Il principe (la politica) affida le sue sorti al mercato, continua a produrre leggi che di fatto avallano il deprezzamento del lavoro e lo relegano in una condizione di “minorità”, egli ha perso la bussola per orientarsi e il fiume delle scartoffie burocratiche, inerenti ai diritti civili, si è così ingrossato che straripa quotidianamente, in quanto gli argini sono quasi inesistenti.

La rappresentanza politica finisce per essere completamente sconnessa dalla vita sociale, non riconosce il lavoro sociale e si annida in proclami salvifici, che si fondano su atteggiamenti magici e miracolistici. In pratica, stenta a veder che dietro il completamento di qualsiasi opera c’è passione, dedizione, interesse, intelligenza, spreco di energia, in breve quella parola astratta che si chiama lavoro e che in tanti, nella società in cui viviamo, disprezzano o deprezzano.

Per un altro verso, le persone che vivono del loro lavoro, agendo come individui isolati, hanno dissolto la consapevolezza che l’attività che pongono in essere abbia un’utilità sociale, anche in funzione del fatto che sorgono continue difficoltà nel distinguere il lavoro necessario da quello superfluo.

Il lavoro dello spazzino, in quanto lavoro manuale, non è molto ambito, e poi, in qualche misura, persistono i pregiudizi che Antonio De Curtis descrive in modo pregnante nella sua poesia A Livella. Nondimeno, a produrre monnezza non sono solo i nobili o i grandi industriali, non possiamo prescindere dal legame tra produzione e consumo che ci vede coinvolti.

Come lavoratori e lavoratrici dipendenti, per emanciparci dalla condizione di “minorità”, non possiamo accettare passivamente la guida di chi compra il nostro lavoro, e forse sarebbe opportuno prendere spunto dalla storia dei ravennati, per iniziare a realizzare quest’immensa opera di bonifica dell’ambiente in cui siamo immersi, beninteso che non riguarda solo Roma.

Infine, ad Alessandro Gassmann, fautore di una lodevole iniziativa per ripulire Roma, nel lontano 2015, direi che non basta farsi fotografare con una scopa sulla spalla, mentre si pulisce il proprio vicoletto: il netturbino fa un lavoro duro, 38 ore settimanali, esclusi gli straordinari, rimane a contatto con materiali maleodoranti.

Si tratta di un lavoro fisico che alla lunga provoca acciacchi, usure, allergie. Insomma, non è una passeggiata maneggiare le fetenzie degli altri, le buste puzzolenti, e non è gradevole viaggiare in camion infestati da un morbo repellente.

Ecco!

Il riconoscimento dell’utilità sociale degli operatori ecologici deve passa attraverso gli intrecci di queste difficili condizioni lavorative e sulla necessità di mitigarle, riducendo le ore di esposizione ai cattivi odori, non di certo sugli attacchi pettegoli di quei giornalisti che trovano qualsiasi insulso pretesto, pur di sminuire la portata del loro lavoro collettivo, senza il quale saremmo sommersi dai rifiuti fino alla testa.

* da Coku

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  1. Niccolò Machiavelli, Il Principe, versione in lingua italiana moderna a cura di Edoardo Mori, Bolzano, 2020, p. 65.

  2. Ivi, p. 45.

  3. Charles de Seconda! barone di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, Volume I, libro IX, p. 238.

  4. Ibidem

  5. P. Isaja, G. Lattanzi e V. Lattanzi, Pane e lavoro. Storia di una colonia cooperativa: i braccianti romagnoli e la bonifica di Ostia, Marsilio Editori, Venezia 1986.

  6. F. Engels, Anti-Duhring in Opere vol. XXV, Editori Riuniti, Roma 1974.

  7. Si veda, Rendita finanziaria e rendita fondiaria a Roma. Dialogo con Federico Sannio, https://www.coku.it

  8. Addetti e monte salari AMA (2010-2019). Fonte: bilanci AMA.

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