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La raffineria di Priolo in via di cessione, sotto i paletti del golden power governativo

Al Consiglio dei ministri di martedì il governo ha dato via libera alla vendita della raffineria di Priolo, nel siracusano. Era del resto aspettata da tutti una decisione su questo travagliato dossier, dato che nel giro di pochi giorni si sarebbe giunti al termine utile per esprimersi sull’acquisizione.

Goi Energy, il ramo energetico di un fondo cipriota, può procedere a rilevare lo stabilimento che era della Litasco, società svizzera controllata dalla russa Lukoil. L’affare, che dovrebbe perfezionarsi nell’arco di qualche settimana, si stima valga 1,2 miliardi di euro.

La vicenda del sito di Priolo è cominciata poco dopo la guerra, con il quadro di sanzioni a Mosca che aveva mandato in crisi la produzione. Contando largamente sull’utilizzo di materia prima importata dalla Russia, l’attività è andata velocemente in panne.

Ma lo stabilimento siciliano è di importanza strategica per tutto il sistema italiano. Lì, infatti, venivano raffinate più di 10 milioni di tonnellate di greggio all’anno, fornendo più di un quinto di tutti i carburanti utilizzati nel nostro paese.

La continuità dell’attività a Priolo è dirimente in questo momento per tutto il sistema italiano. E di sicuro significa salvare il migliaio di lavoratori lì impiegati, nonché i circa 10 mila dell’indotto complessivo. Preoccupazione che ovviamente non rientra tra quelle del privato, dato che le banche avevano disertato i tavoli ministeriali e avevano chiuso le linee di credito.

Una tale preoccupazione, quella di garantire l’occupazione e i redditi, può assumersela solo il pubblico, ma anche in questo caso lo stato ha solo fatto da ponte verso l’acquisizione di un altro privato. Speculazione dopo speculazione, la gestione pubblica di settori strategici è comunque rifiutata.

Ad ogni modo, il governo ha fatto ricorso al «Golden Power», ovvero alla possibilità di bloccare o legare a determinate condizioni operazioni di questo tipo. Il contenuto del decreto non è ancora chiaro in tutti i suoi termini, ma possiamo tracciarne gli elementi cardine.

Nonostante non ci siano prove del rapporto con la Russia, l’esecutivo ha imposto che le forniture dell’oro nero, che dovrebbero essere decennali, siano tracciate, evitando sia gli acquisti diretti da Mosca sia attraverso complesse triangolazioni e con l’ausilio di altri paesi sanzionati. Alcune indiscrezioni del Financial Times parlano addirittura di pressioni di Washington in questo senso.

Altre prescrizioni riguardano il mantenimento dei livelli occupazionali, gli investimenti da fare e gli impegni ambientali in tema di emissioni e di uso del depuratore dell’area industriale. Ancora una volta dovremmo affidarci al fatto che questi paletti vengano rispettati, quando sono le istituzioni stesse che raramente si adoperano perché accada.

Tirando le somme, l’iniziativa pubblica è stata indirizzata solo a favorire il subentro di un altro privato, che rispetterà gli accordi finché gli farà comodo. La transizione ecologica, che già aveva subito una battuta d’arresto, resta solo come una serie di limiti, che non ci salveranno dalla crisi climatica.

Non a caso, spesso la vicenda di Priolo è associata a quella dell’Ilva, i due dossier industriali più contradditori sul tavolo del governo Meloni. Entrambi i casi hanno soluzione solo con l’intervento diretto dello stato, garantendo i lavoratori e allo stesso tempo operando per una concreta tutela della salute e dell’ambiente, qualunque cosa ciò comporti.

Solo il pubblico può assumersi questa logica, oltre la ricerca del profitto. L’unico scopo che però si sta perseguendo con questo decreto – e chissà se le autorità riusciranno davvero a farlo rispettare – nel caso della raffineria è invece quello di recidere ulteriormente i legami con la Russia, per continuare a soffiare sul fuoco dell’escalation.

L’inasprirsi della competizione internazionale si nota anche in altri decreti di applicazione del Golden Power, nel settore delle telecomunicazioni. Una scelta in continuità con quelle già effettuate da Draghi, per limitare la presenza di apparecchiature cinesi nelle infrastrutture italiane.

Due governi che si muovono sulle stesse linee politiche, quelle definite dalla cornice euroatlantica che ci porta dritti nel baratro della crisi economica, ambientale e verso la guerra generalizzata.

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