Ci sono storie che dimostrano la natura inqualificabile di una “amministrazione” della giustizia che non ha nulla di umano. E neanche più di “costituzionale” (articolo 27).
Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, su pressione della Procura, ha rifiutato a Renato Vallanzasca la detenzione in una struttura idonea alle sue condizioni di salute, molto precarie, ormai, con certificati deficit cognitivi.
A maggio i suoi legali avevano infatti prodotto una consulenza medico legale firmata da due neurologi, tra cui il professore Stefano Zago, per dimostrare che Vallanzasca da almeno 4 anni soffre di un serio decadimento cognitivo. E hanno chiesto ai giudici (presidente D’Elia, relatore Rossi e due esperti) che venisse effettuato un accertamento medico legale sul punto.
Secondo il sostituto pg di Milano, Maria Saracino, le condizioni del 73enne, non erano invece “incompatibili col carcere”.
Per di più, in quell’occasione, la Procura aveva chiesto di prolungare di altri sei mesi in suo isolamento diurno; ma il Tribunale di Sorveglianza aveva almeno rigettato questa richiesta assurda.
Renato Vallanzasca è stato certamente un protagonista quasi da romanzo della mala milanese degli anni ’70, autore di rapine, omicidi e sequestri di persona per cui è stato condannato più volte all’ergastolo.
La sua fama era stato poi ampliata da un discreto numero di evasioni – l’ultima della quali nel 1987, dalla nave traghetto ferma nel porto di Genova mentre doveva essere “tradotto” del carcere di massima sicurezza di Badu e Carros, a Nuoro.
Ha per questo trascorso in carcere quasi 52 dei suoi 73 anni di vita.
Anche i suoi ultimi decenni non sono stati semplici. Ottenuto un paio di volte il regime di “lavoro esterno” (uscendo dal carcere di giorno solo per andare a lavorare, e rientrando per la notte) se l’era visto revocare una volta perché “sforava” gli obblighi per vedersi con una donna, la seconda per le proteste dei famigliari di un poliziotto rimasto ucciso decenni prima.
Otteneva poi la semilibertà (molto simile al “lavoro esterno”, ma con qualche margine di movimento in più) e ci restava fino al giugno 2014, quando – incredibilmente – veniva bloccato alla cassa di un supermercato perché, oltre alla spesa regolarmente pagata, si stava portando via… un paio di mutande.
Per questo “reato” viene condannato ad altri 10 mesi di reclusione con l’accusa di “rapina aggravata”. Quasi un “omaggio” al suo nome, non certo al “gesto”…
Ma soprattutto viene di nuovo rinchiuso e definitivamente in una cella. A chi l’aveva conosciuto di persona – ex detenuto o giornalista che fosse – quell’episodio al supermercato era sembrato troppo stupido per un “personaggio” col suo curriculum, come se già allora non fosse più lui.
Oggi la sua ex moglie ha scritto all’Ansa chiedendo appunto: “Quanto deve pagare ancora? Dopo 50 anni di carcere e una condizione di salute precaria, anzi peggio. Rifiutare le misure alternative a Renato Vallanzasca significa non solo condannarlo al carcere a vita, cosa che già è avvenuta e all’impossibilità di vivere uno stralcio di normalità, ma anche umiliare un uomo ormai ridotto all’ombra non di quello che era, ma di quello che tutti hanno pensato che fosse“.
Antonella D’Agostino ricorda che l’ex marito “ha vissuto otto anni in semilibertà e poi ai domiciliari senza fare niente di male. E quando portò via quelle mutande dal supermercato capii che nel suo cervello qualcosa aveva cominciato a non funzionare“.
“Da fuori ho sofferto ogni volta che ho visto quelle sue smargiassate che lo hanno reso il ‘Bel Renè’ soprannome che ha sempre odiato ma siccome faceva figo se lo è tenuto“, continua Antonella D’Agostino che conosce l’ex marito da quando erano bambini.
“Quanto deve pagare ancora perché possa morire in pace? E sia chiaro non da uomo libero, ma affidato a una struttura. Ormai lo avete piegato per sempre. Dimentichiamo gli occhi azzurri e il suo fascino. E’ l’ombra di sé stesso. Una larva umana. Che forse merita un po’ di pietà. A meno che 50 anni di carcere vi sembrino pochi“.
O a meno che il “decadimento cognitivo” non sia ormai la cifra caratteristica di un certo modo di “amministrare la giustizia”.
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Andres
Sono convinto che fra chi amministra la giustizia ci siano persone con una mente perversa ,malata e sadica.Queste sono veramente persone da meritare il T.S.O…..per il loro e di altri bene.
alberto
per quello che ho visto, conosciuto, letto, non posso far altro che condividere il commento di Andreas al 1000×1000
Eros Barone
“Come diceva Bertolt Brecht? È un crimine più grande fondare una banca o rapinarla? Bene, io a quella domanda come tutti sanno ho dato una risposta. Ma guardandomi intorno oggi, sai cosa mi colpisce? Che quarant’anni fa, Milano era più cupa, più sporca. Ma ad avere paura era solo chi aveva il grano. Le porte delle case restavano aperte. Gli operai che tiravano la lima alla Marelli lasciavano i ragazzini alla vicina o in cortile. Oggi chi ha il grano paura non ne ha più. La paura è dei disgraziati. Paura di essere scippati, violentati, accoltellati. E sai cosa trovo ancora più incredibile? Che a dire «Al lupo, al lupo», però, sono rimasti sempre quelli che hanno il grano. Oggi uno che fa una rapina prende quindici anni. Chi manda sul lastrico qualche decina di migliaia di famiglie succhiandosi i loro risparmi, va bene se fa un mese ai domiciliari. Il senso della comunità è andato a farsi fottere. E se non c’è comunità, non c’è mito. Guardia o ladro che tu sia.” Così Vallanzasca citato al seguente indirizzo: https://it.wikiquote.org/wiki/Renato_Vallanzasca. Il 25 settembre 1967 le vie di Milano furono teatro di una sanguinosa sparatoria tra un gruppo di rapinatori che, dopo aver dato l’assalto a due banche, stavano fuggendo a bordo di un’automobile, e le volanti della polizia che li inseguivano. Al termine di quella folle corsa durata quasi un’ora, corsa che si era snodata attraverso le vie della città coprendo una distanza di dodici chilometri, vi furono quattro morti e quattordici feriti tra i passanti e otto feriti tra le forze dell’ordine. Aveva così termine, con un furibondo conflitto a fuoco e l’arresto di tutto il gruppo nei giorni successivi, l’attività della “banda Cavallero”, che aveva operato tra Milano e Torino mettendo a segno i suoi colpi per quasi nove anni. I suoi componenti rispondevano ai nomi di Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Donato Lopez e Danilo Crepaldi. Ma l’aspetto più sorprendente della vicenda fu quello che si ebbe nel corso delle udienze del processo, poiché gl’imputati, più che a discolparsi dei reati commessi, puntarono a rivendicarne le finalità ideali, appellandosi alla prospettiva di una rivoluzione proletaria per finanziare la quale ritenevano necessario dare l’assalto alle banche, emblematici “santuari del capitale”. Così, in coerenza con tale motivazione, quando i giudici déttero lettura della sentenza, i tre principali componenti della banda Cavallero si alzarono in piedi e, levando il pugno chiuso, intonarono “Avanti, siam ribelli”, celebre ‘refrain’ dello storico canto di protesta intitolato “Figli dell’officina”. La vicenda di Renato Vallanzasca è ovviamente diversa da quella del gruppo creato da Cavallero, poiché rientra in una fenomenologia criminale in cui predomina la componente individualistica. Ciò nondimeno, l’intelligenza e la capacità di osservazione e assimilazione, di cui Vallanzasca era dotato, non sono affatto sottovalutabili, come dimostra la citazione qui riportata. L’accanimento giudiziario nei suoi confronti non è che la logica conseguenza della ferocia classista di un sistema che non gli perdona il coraggio e la lucidità con cui Vallanzasca lo ha sfidato.