Il ciclo di lotte operaie iniziato nel 1969 non investì solo i distretti industriali del Nord, città fabbriche come Torino, Milano o Genova, ma ebbe un respiro nazionale investendo anche città come Roma cresciuta a dismisura nelle sue sterminate periferie sotto la spinta della migrazione interna.
Le tradizionali lotte dei lavoratori edili, che avevano segnato la sua vita politica e sociale negli anni del dopoguerra, cominciavano ad essere accompagnate dai movimenti di lotta per la casa, da crescenti occupazioni di immobili di proprietà dei grandi imprenditori edili che avevano messo al sacco l’agro romano e dai ceti operai delle aziende della zona sud-est della città.
Nei giorni del natale 1971 un violento assalto della polizia aveva tentato di impedire l’apertura di un enorme tendone in piazza di Spagna, nel centro ricco della città, per chiedere solidarietà e aiuto economico alle famiglie dei lavoratori in lotta di aziende come la Coca Cola, le Camicerie Cagli, le Cartiere Tiburtine, la Pantanella, l’Aereostatica, il Lanificio Luciani, oltre alla Fatme, Voxson e Autovox.
Una realtà che l’urbanista Italo Insolera descriveva in questo modo nel suo Roma moderna: «Le tute degli operai sono comparse in città in lunghi e frequenti cortei che hanno portato nel paesaggio impiegatizio le parole “sciopero”, “occupazione”. Nomi di prodotti industriali – Fatme, Autovox – sono diventati nomi di problemi che la città ignorava. […]
Nel 1968 nei vari baraccamenti e borghetti risultavano abitare 62.351 persone in 16.506 nuclei familiari. Dall’estate del ’69 i baraccati hanno occupato metodicamente palazzi in demolizione in vari quartieri della città e nuovi edifici ancora disabitati nella periferia, dando contemporaneamente fuoco alle baracche per sottolineare la volontà di rottura con il passato.
Poi sono stati sloggiati dalla polizia – in genere all’alba, quando non solo dormono i baraccati, ma anche i cittadini “per bene”, i fotografi, i giornalisti, e i camion targati Ps, con sopra le povere masserizie, non rischiano di intralciare il traffico – e altre baracche sono sorte».
I presìdi davanti ai posti di lavoro per svolgere assemblee, rafforzare gli scioperi o mantenere alto lo stato di agitazione sono parte del repertorio d’azione storico della working class.
Strumenti antichi di lotta operaia, democrazia in azione o forme di «contropotere» che hanno incontrato sempre la dura repressione delle forze di polizia schierata in difesa degli interessi padronali.
Sul finire degli anni Sessanta i settori più progressivi di una magistratura sociologicamente rinnovata dai nuovi concorsi che avevano permesso l’ingresso di ceti sociali un tempo esclusi e per questo più sensibili alle idee di rinnovamento, rivolsero un’attenzione diversa ai conflitti del lavoro.
Una giurisprudenza innovativa interpretò questi fermenti ancorandoli ad alcuni dettami costituzionali rimasti inattivi. Il divario tra costituzione materiale e costituzione formale tendeva così a restringersi, anzi in molte parti del Paese la prima sopravanzava di gran lunga la seconda.
Il clima mutò bruscamente alla fine degli anni 70 quando sotto la pressione dell’emergenza antiterrorismo gli strumenti della democrazia operaia persero legittimità e all’idea di sindacato conflittuale si sostituì il sindacato “concertativo”.
La profonda ristrutturazione produttiva modificò i rapporti sociali e politici a cui seguì una giurisprudenza restaurativa ispirata al nuovo paradigma economico ultraliberale. La conseguenza fu una violenta criminalizzazione degli strumenti di lotta operaia.
La vicenda dei 61 operai Fiat licenziati per ragioni politiche nell’ottobre 1979, 40 della Mirafiori, 13 di Rivalta e 8 della Lancia di Chivasso, accusati di «violenze fisiche e minacce», fece da battistrada.
Una situazione analoga si ripresenta oggi nel comparto della logistica, uno dei settori strategici del capitalismo attuale dove vigono forme di lavoro neoschiavile: sfruttamento intensivo della forza lavoro, in prevalenza straniera, unitamente a condizioni contrattuali precarie, un uso sistematico degli straordinari con orari che toccano le 12-13 ore senza periodi di riposo, la presenza di intimidazioni, minacce, abusi verso i lavoratori, violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene.
Una giungla dove l’organizzazione del lavoro è costituita da pseudo-cooperative sottoposte al dominio degli algoritmi dei grandi hub dell’ecommerce, appalti e subappalti, forme di caporalato, interinali, mancanza di diritti sindacali, bassi salari.
Per tentare di porre freno a questa situazione di oppressione e sfruttamento alcune sigle del sindacalismo di base hanno organizzato i lavoratori innescando cicli di lotte molto conflittuali per migliorare le loro condizioni di vita e tutelare i loro diritti politici e sindacali. Una fortissima repressione antisindacale si è abbattuta su di loro.
Nel 2013, Adil Belakhdim, un delegato sindacale del SiCobas, è stato travolto da un camion nel corso di un presidio davanti ai cancelli del centro di distribuzione della Lidl a Biandrate, in provincia di Novara.
Nel luglio del 2021, la procura di Piacenza ha fatto arrestare sei sindacalisti dell’Usb e del SiCobas: tra i capi di imputazione c’erano «le attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti». Secondo la procura le forme di lotta sindacale impiegate nel corso delle vertenze altro non erano che strumenti di «coercizione e ricatto», le rivendicazioni una mera «attività estorsiva» e l’organizzazione sindacale una «associazione per delinquere».
L’iniziativa, anche se poi ridimensionata dal tribunale, segnala la forte regressione della giurisprudenza sul lavoro sul tema degli scioperi, ormai nella stragrande maggioranza dei casi i picchetti vengono considerati forme di violenza privata.
Addirittura in una recente sentenza un giudice ha ritenuto che anche nel settore privato lo sciopero debba essere preannunciato a questura e controparte.
* da Insorgenze.net
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa