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E alla fine il governo si appende alle “privatizzazioni”

Ricorrente come l’influenza stagionale, ecco ripresentarsi la “necessità di privatizzare” anche quel poco che resta delle imprese ancora controllate dallo Stato.

Ad avanzare questa “necessità” è stato – come sempre accade – colui che temporaneamente occupa la poltrona di ministro dell’economia, qualsiasi sia il partito di appartenenza e qualsiasi sia il “profilo politico” del governo in carica.

Giancarlo Giorgetti, in questo caso, preso dall’atmosfera di Cernobbio, ha di nuovo pronunciato la parola magica: “privatizzazioni”. Naturalmente perché bisogna “arginare la crescita del debito pubblico” e, contemporaneamente, trovare qualche spicciolo per le misure-simbolo del governo Meloni (diverse a seconda dei partiti della maggioranza).

Diciamo subito due cose sul piano generale. La prima è che il debito pubblico – non solo italiano, ma di qualsiasi stato europeo – cresce sempre, qualunque sia la linea politica e la “competenza” del governo in tema di austerità contabile.

E’ cresciuto anche durante il governo di Mario Draghi, che pure – da quasi presidente della Bce e successivamente – aveva dato lezioni sul come tagliarlo, rimbrottando tutti i governi del continente. Segno che c’è un malfunzionamento strutturale nel “sistema europeo”, che produce debito anche quando quando tagli le spese. Ma parlare di questo è tabù, per chi governa in Europa.

La seconda è che “vendere i gioielli” è una mossa disperata, lo faccia un “padre di famiglia” oppure un governo, perché poi non ti resta più niente per far fronte al fallimento. Tanto più se quei “gioielli” sono imprese industriali, ovvero aziende che generano profitti – o che dovrebbero farlo, se ben gestite – e che quindi portano risorse ogni anno, a disposizione dello Stato.

Dopo la “grande stagione delle privatizzazioni” condotte dai governi Prodi e Berlusconi è però rimasto ben poco. E quelle aziende cedute “al mercato” sono o scomparse o finite in mano ai Gekko che ne hanno fatto spezzatino e poltiglia (do you remember Colaninno e i “capitani coraggiosi”? E i Benetton?).

Trenta anni fa c’era ancora l’Iri, driver della politica industriale italiana fin dai tempi del fascismo, ma è stata svuotata e pi chiusa. Ne facevano parte oltre 1.000 aziende e mezzo milione di dipendenti. Al momento della chiusura era il settimo conglomerato industriale al mondo, con un fatturato di 67 miliardi dollari.

In quell’orbita rientravano giganti come Telecom, Italsider, Finmeccanica, Alfa Romeo, Alitalia, Autostrade, ma anche banche (Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma), Italstat (costruzioni), Tirrenia, aziende alimentari come Motta e Alemagna.

In pratica, interi comparti industriali che rappresentavano produzioni o servizi normalmente considerati “strategici” (telecomunicazioni, trasporto aereo, banche, infrastrutture) sono stati alienati e di fatto distrutti, o – dopo vari passaggi di mano – finiti sotto il controllo di multinazionali straniere.

Ora ci sono ancora aziende importanti controllate dallo Stato (Eni, Leonardo – ex Finmeccanica – Ferrovie, Montepaschi, Rai, Poste, Enav (controllo del traffico aereo), Enel, il 50% di Stm, il Poligrafico, Cinecittà (gli studios…), ecc.

Sono “controllate”, in genere tramite una quota azionaria di controllo, ma “privatizzate” intanto nella logica gestionale, totalmente orientata al profitto (come dimostrano gli incidenti nelle ferrovie…).

Nel nuovo giro di giostra, perciò, al momento sembra certa solo la cessione di MontePaschi, come peraltro da impegni presi con l’Unione Europea (non vi sembra straordinaria questa passione “europea” per le banche solo private?).

Tutte le altre aziende sono in parte già “collocate sul mercato”, oppure scarsamente appetibili per i privati. Più per una lunga serie di vincoli legislativi dovuti alla loro “funzione sociale” (è il caso delle Poste) che non per la redditività.

L’operazione, insomma, partirebbe molto depotenziata rispetto al lontano passato.

Quella, lanciata da Mario Draghi a bordo del Britannia (lo yacht della famiglia reale inglese, “prestato” per l’occasione), ebbe effetti disastrosi, portando peraltro un sollievo solo scarso e temporaneo alle casse dello stato. Del resto, se “il mercato” sa che sei “costretto a vendere”, il prezzo cala in modo drastico.

E se è andata male la “lenzuolata” di Draghi-Bersani, quando i governanti sembravano autorevoli e l’affare gigantesco, possiamo immaginare facilmente quanto possa essere efficace questa, in cui “il venditore” non gode di altrettanta considerazione…

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