Insieme all’attivista Stefano Galieni e alle associazioni di attivist* sard* e la Rete NO CPR sarda parliamo dei Centri Permanenti per i Rimpatri, dalla loro istituzione nel 1998 fino ad oggi, con un focus particolare sul CPR di Macomer. “Per sfamare pochi lavoratori – ha detto l’associazione di attivist* sard* descrivendolo – sono imprigionate persone con la sola colpa di non essere in possesso di un documento di soggiorno, ma che combattono la stessa guerra per diritti, dignità e lavoro”.
Stefano Galieni è responsabile nazionale immigrazione del partito in cui milita, giornalista e attivista antirazzista e fin dai primi anni Novanta ha partecipato alla stagione in cui si tentava di contribuire a una legislazione positiva in materia di immigrazione, sfociata poi in un testo “insufficiente” come la Turco-Napolitano.
«Quelli che oggi si chiamano Centri Permanenti per i Rimpatri (CPR) esistono, con diversa denominazione dal 1998, con l’approvazione del T.U. sull’immigrazione», spiega. «Le strutture dovevano servire come estrema ratio per trattenere, massimo 30 giorni, i migranti in Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPTA) dal 2009 divenuti CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e CPR dal 2017. Da sempre vi finisce chi, non avendo ottemperato all’ordine di espulsione, deve essere rimpatriato».
Quali sono le condizioni di vita all’interno dei CPR?
Negli anni molti Centri sono stati aperti e poi chiusi per inadeguatezza al trattenimento. Costituiscono un business: la vigilanza esterna è affidata allo Stato, la gestione interna è delegata a privati che ne traggono profitto. Da quando sono nati almeno 40 persone vi sono morte per suicidio, tentativi di fuga o malori non curati, in migliaia si sono cagionati danni da autolesionismo, come tagliarsi parti del corpo o cucirsi la bocca; infinito il numero delle rivolte, tanti i casi di dipendenza da psicofarmaci assunti nei Centri.
Nel 2007 si attivò una commissione di inchiesta su tali strutture che ottenne soltanto la chiusura di quelle in cui le condizioni di vita erano considerate inumane. Le normative europee permettono di protrarre il trattenimento fino a 18 mesi. A fronte c’è il dato che, andando oltre ragioni di diritto – vi si è rinchiusi senza aver commesso reati penali – e di costi – parliamo per ogni Centro di milioni di euro annui –, meno della metà delle persone che vi vengono detenute sono poi rimpatriate.
Si è tentato di abolire queste realtà più volte, ma senza mai successo. Puoi ricostruire le iniziative lanciate sinora?
Negli anni movimenti sociali, sindacati, associazionismo e alcuni partiti o esponenti di essi hanno provato a chiederne l’abolizione con molti mezzi. Dalle ispezioni in cui si dimostravano le condizioni di trattamento inumano e degradante a cui vengono sottoposte le persone trattenute, e che spesso si traducono anche in atti di violenza, all’assenza dei più elementari servizi, pur previsti dai bandi d’appalto vinti per averne la gestione. Opinione comune di tutti i soggetti che si sono impegnati in materia è che questi centri siano irriformabili e vadano chiusi.
Dal 2011, dopo che il governo con una circolare negò a gran parte delle associazioni e degli operatori dell’informazione l’accesso nei Centri, sono nate campagne nazionali come LasciateCIEntrare per denunciare tale muro di gomma. Ma l’ingresso nei CPR resta a discrezione delle Prefetture. Solo i parlamentari hanno libero accesso, col nuovo regolamento emanato nel 2022 anche i collaboratori dei parlamentari che chiedono l’accesso sono sottoposti al vaglio delle prefetture. Recentemente, a seguito delle denunce del NAGA e della rete Mai più lager – No ai CPR, è stata aperta un’inchiesta dalla Procura di Milano e dalla Guardia di Finanza sulla gestione del Centro di Via Corelli a Milano.
Qual è la situazione attuale a livello nazionale?
I CPR operativi ad oggi sono nove: Gradisca d’Isonzo (GO), Milano, Roma, Bari, Brindisi, Palazzo San Gervasio (PZ), Trapani, Caltanissetta, Macomer (NU). L’attuale governo, come i precedenti, intende investire per aprirne in altre regioni. Spesso gli enti locali sono contrari a ospitarli in quanto, al di là di narrazioni securitarie, i Centri non garantiscono “sicurezza”.
Come si identifica il CPR di Macomer in Sardegna?
Sono passati quasi quattro anni dall’apertura di un CPR in Sardegna. Il centro, un ex carcere situato nella zona industriale nella periferia di Macomer, dispone di cinquanta posti, che presto raddoppieranno al concludersi dei lavori di ristrutturazione finanziati dall’attuale governo, nel quadro del potenziamento della rete dei CPR esistenti.
Per sfamare pochi lavoratori sono imprigionate persone con la sola colpa di non essere in possesso di un documento di soggiorno
Amministratori regionali e locali hanno accolto con favore l’apertura del Centro per il rimpatrio sardo ritenendolo una imperdibile occasione di sviluppo per il territorio, mentre per l’area del Marghine si tratta dell’ennesima servitù statale che lascia briciole. Per sfamare pochi lavoratori sono imprigionate persone con la sola colpa di non essere in possesso di un documento di soggiorno, ma che combattono la stessa guerra per diritti, dignità e lavoro.
Da chi è gestito il CPR?
A partire dal gennaio 2020 il CPR di Macomer è stato gestito dal ramo italiano della multinazionale elvetica ORS e attualmente dalla cooperativa Ekene. La prima si è aggiudicata anche la gestione dei CPR di Roma e Torino 0 attualmente chiuso – ed è stata oggetto di inchieste giornalistiche che ne hanno rilevato molti lati oscuri. La seconda, a Macomer dal marzo 2022, gestisce anche quello di Gradisca d’Isonzo. Nel corso degli anni ha cambiato più volte la denominazione sociale ed è stata al centro di vicende giudiziarie legate anche all’accoglienza di migranti. Purtroppo soggetti come questi continuano a vincere gare di appalto per gestire prigioni in cui non vengono tutelati i diritti fondamentali di chi vi viene recluso.
Come ha reagito il territorio?
In seguito all’apertura del CPR sardo si è creata una rete di persone e realtà locali, buona parte delle quali confluisce nell’Assemblea No CPR Macomer, che ha promosso momenti di discussione e di informazione sulla esistenza dei CPR e di solidarietà con i detenuti del Centro.
Si assiste costantemente alla criminalizzazione degli stranieri reclusi nei CPR, ma anche di chi cerca di dimostrare loro solidarietà e vicinanza. A Macomer una prima manifestazione di protesta è stata impedita e il tentativo di portare un saluto solidale dall’esterno della struttura ai detenuti ha ricevuto una risposta di tipo repressivo, con denunce nei confronti dei partecipanti, rinvii a giudizio e fogli di via da Macomer.
Quali le azioni e il ruolo dell’associazionismo locale?
LasciateCIEntrare, insieme all’Assemblea, ha cercato di monitorare con estrema difficoltà le condizioni di detenzione nel CPR. Le richieste di accesso sono state puntualmente respinte e, con la soppressione del servizio che consentiva di chiamare dall’esterno i telefoni pubblici installati negli alloggi del Centro, si è perso uno strumento utile per riportare prontamente segnalazioni su disagi, illegittimità e abusi.
L’apertura di un’inchiesta sulla gestione del CPR di Milano e l’esposto depositato lo scorso anno sul CPR friulano dimostrano l’importanza del ruolo della società civile nel fare luce sul funzionamento di queste prigioni, che sono luoghi di strutturale privazione di diritti che non possono essere umanizzati e che devono essere chiusi al più presto.
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