Dopo il 25 aprile, tutto crollò, per Mussolini. Il duce dimostrò, in quei giorni che gli restavano, molta confusione e indecisione, ma con il parametro costante della fuga e del tradimento, anche dei pochi che gli rimasero fedeli. I peggiori giorni della sua vita.
Spiace dover disilludere i nostalgici, ma la ricerca storica recente ha fugato i dubbi: anche con l’aiuto delle interviste ai nazisti SS della sua scorta. Molta letteratura, revisionista, ma anche non esplicitamente tale, nega l’intenzione di Mussolini di fuggire in Svizzera, basandosi più che altro sulle dichiarazioni pubbliche che l’ex-duce stesso fece nei mesi e nelle settimane precedenti.
Lo stupore ci prende ogni volta, quando viene dato credito, a volte anche da storici seri, alle dichiarazioni di Mussolini, sia pubbliche che private: era un uomo che si serviva della menzogna in maniera, per così dire, abile ed abituale [1, 2, 3].
Prima fuga: da Milano, la sera del 25 aprile
Mussolini, dopo la fallita trattativa in Arcivescovado, rientra in Prefettura e fugge da Milano, dove inizia l’insurrezione. L’ordine di partenza, impartito da Mussolini col motto “Precampo a Como!“, lascia ancora intendere ad Alessandro Pavolini, segretario del PFR e grande sostenitore del “Ridotto in Valtellina” (un progetto per trasferire quel che resta della RSI in montagna), che Mussolini ed i suoi lo attenderanno a Como per poi proseguire per Lecco e la Valtellina.
Ma prestiamo attenzione ai particolari. Appena prima di fuggire, Mussolini fa diramare un comunicato, fra gli ultimi della RSI, dove chiama tutti i fascisti della provincia o comunque nelle vicinanze a convergere su Milano, in zona Prefettura e Piazza San Sepolcro, per una estrema resistenza: un’ultima bordata di retorica basata sul “ritorno alle origini”, poiché in Piazza San Sepolcro a Milano vennero fondati nel 1919 i fasci di combattimento.
Il comunicato viene trasmesso per radio, ma anche attraverso altoparlanti a Milano: lo testimonia Sandro Pertini in una lunga intervista a Enzo Biagi.1
Da parte di Mussolini, questo è quindi un vero e proprio tradimento dei suoi ultimi seguaci, utilizzandoli per generare confusione ed approfittarne per svignarsela: parte per Como con i gerarchi e con la “scorta” SS del tenente Fritz Birzer. Gli ultimi fascisti milanesi lo implorano di non abbandonarli e di resistere con loro. Invano, naturalmente.
Seconda fuga: da Como, la mattina presto del 26 aprile
Nelle giornate del 25 e 26 aprile, a Como, si concentrano numerosi gruppi di fascisti, provenienti dalle zone circostanti: Giorgio Bocca [2] parla della presenza di 6.000-7.000 uomini in totale a Como, ampiamente sufficienti – nonostante la demoralizzazione e la scarsa qualità – per asserragliarsi a difesa di possibili attacchi partigiani e attendere l’arrivo degli Alleati.
Invece, Mussolini scarta innanzitutto definitivamente l’opzione Valtellina: non ha nessuna intenzione di porsi alla testa dei suoi ultimi seguaci, ritenendo – forse giustamente – che quell’atto fosse soltanto il preludio alla sua cattura, evento al quale non era del tutto rassegnato.
Appare poi evidente che Mussolini – percorrendo la riva occidentale e non quella orientale, come aveva suggerito Pavolini la sera del 25 aprile – non si precluse la possibilità di fuga oltreconfine.
Como è molto vicina alla Svizzera, ma è anche un valico troppo noto, ed era andato riempiendosi di fascisti che si aspettavano di seguire il “capo”: ma un esodo di massa verso la Svizzera era improponibile, il valico di Chiasso era già stato chiuso dalle autorità svizzere; da qui, la decisione per la fuga antelucana di Mussolini verso Menaggio, con pochi seguaci.
Mussolini, oltre che tutti gli irriducibili di Como, cercò di ingannare anche Fritz Birzer e la scorta tedesca, che, scoperti i preparativi per la fuga da Como nelle ore antelucane del 26, volevano impedirglielo con i mitra puntati.
Assai significative sono le dichiarazioni dello stesso capo della sua scorta tedesca, Fritz Birzer, in una intervista rilasciata quasi quarant’anni dopo i fatti (Figura 3) e della quale riportiamo alcuni stralci, anche in seguito utilissimi2:
Quando durante la sosta alla prefettura di Como, riuscii a mettermi in contatto telefonico con un aiutante dell’ambasciatore Rahn che si trovava al consolato tedesco di Milano e gli chiesi istruzioni, temendo un tentativo di fuga di Mussolini in Svizzera, la risposta che ricevetti fu: “Qui non c’è più nessuno, non so cosa dirle. Agisca come meglio crede e se Karl Heinz tenta di fuggire, lo uccida”.
Karl Heinz era il nome in “codice” usato da noi tedeschi per riferirci a Mussolini. Dopo la telefonata al consolato mi recai dal comandante del presidio militare tedesco di Como e gli dissi: “Signor Ortskommandant, sono qui col duce e temo che voglia tagliare la corda. Che cosa mi consiglia di fare?”
Mi rispose: “Io ho a disposizione trenta uomini, e lei quanti ne ha?” “Una trentina anch’io”, precisai. “Bene – osservò il capitano – allora insieme abbiamo sessanta uomini e siamo abbastanza forti per trattenerlo. Lo faccia prigioniero!”
Mussolini, davanti ai mitra puntati dei tedeschi, convinse ancora Birzer a far abbassare i mitra ai suoi ed a seguirlo verso Menaggio, teoricamente in direzione Merano e poi Brennero: in realtà, come vedremo, con un ultimo guizzo in direzione Grandola, Albogasio e la Svizzera.
Non furono da meno i gerarchi fascisti – presenti in folto numero a Como quella mattina del 26; nessuno ebbe il coraggio di restare a Como per organizzare la difesa e affrontare lo scontro coi partigiani: terrorizzati, tutti i pesci grossi seguirono Mussolini in fuga, mentre gli altri scapparono disordinatamente per proprio conto.
Terza fuga: da Menaggio verso la Svizzera, il 26 aprile 1945 pomeriggio
Mussolini e i gerarchi giungono a Menaggio verso le sei del mattino, senza incontrare ostacoli. Successivamente, dopo un breve riposo, in tarda mattinata, proseguono da Menaggio, ma non lungo il lago: imboccano una ripida strada che ascende verso Grandola e il confine svizzero lungo una valle laterale, abbandonando quindi la strada lungolago.
Grandola dista appena quindici chilometri di strada carrozzabile lungo la sponda nord del lago di Lugano; anche contando le cattive condizioni delle strade e gli ostacoli di allora, Mussolini era a venti minuti dalla salvezza in Svizzera.
Pare che Mussolini avesse avuto notizia che, nella caserma della 53a Compagnia della Milizia Confinaria di Grandola, si concentrasse ancora un numeroso contingente di militi fascisti, che avrebbero potuto liberarlo dalla sua prigionia di fatto.
Mussolini, in quella sua colonna in fuga, aveva come unica forza armata la scorta tedesca di Birzer, che assolutamente non voleva e poteva permettergli di fuggire in Svizzera. Forse il duce avrebbe potuto affrancarsi dal suo ruolo di prigioniero de facto dei tedeschi, forte di una ritrovata milizia di seguaci fascisti. Forse poteva far scontrare e uccidersi fra loro i miliziani fascisti e gli SS tedeschi, mentre lui, “Benito il coraggioso”, incurante delle perdite (altrui) scappava verso la Svizzera.
Immaginiamo la delusione dell’uomo, quando, giunto a Grandola, trovò la caserma praticamente deserta, abbandonata in gran fretta dai miliziani fascisti nei giorni precedenti.
Mussolini si trattenne a pranzo a Grandola, ma sempre prigioniero de facto delle SS di Birzer. Due gerarchi, Buffarini Guidi e Tarchi, partirono in auto costeggiando la sponda nord del lago di Lugano, direzione Albogasio e Svizzera.
Buffarini Guidi era convinto che, se anche le autorità svizzere non avessero fornito loro asilo, i due avrebbero sfondato le barriere con la macchina e “una volta di là, ci tengono”: non aveva previsto di non riuscire ad arrivarci, al confine.
Meta della fuga era la tranquilla cittadina di confine di Albogasio-Oria, sul Lago di Lugano, un valico con la Svizzera che si pensava fosse poco sorvegliato, a due passi da Lugano: il percorso, da farsi interamente in automobile, prevedeva di percorrere l’attuale Strada Statale 340 lungo il tratto della sponda nord del Lago di Lugano in territorio italiano, passando da Porlezza, Cima e appunto Albogasio.
Ma a metà strada fra Grandola e il confine, a Porlezza, i due gerarchi fascisti mandati in avanscoperta, nonostante i documenti falsi e la loro non eccessiva notorietà, oltretutto in piccolo gruppo, vengono comunque riconosciuti ed arrestati dai finanzieri che – anche qui come a Milano e a Dongo – collaboravano coi partigiani.
Mentre due automobili con i gerarchi in avanscoperta sono state bloccate, una terza è riuscita a tornare indietro e ad avvertire il duce. Mussolini capisce che fuggire in Svizzera non è più possibile, e torna a Menaggio, sperando di mescolarsi ai tedeschi in fuga verso la Germania.
Ancora Birzer dice:
Fu a Como che incominciai a capirlo. Per recarsi in Valtellina, da Milano, non si passa da Como, e tanto meno si sceglie la via occidentale del lago.
Ma i miei dubbi aumentarono quando Mussolini tentò di partire da Como a mia insaputa, alle 4.40 del 26 aprile. Perché voleva andarsene senza la sua scorta tedesca, da lui tante volte elogiata? E tutti sanno che glielo impedii con i mitra dei miei uomini puntati.
A Grandola poi i miei dubbi si fecero più consistenti. Perché Mussolini era salito in quella località, a pochi chilometri dal confine svizzero, abbandonando la litoranea Menaggio-Dongo? E perché aveva mandato Buffarini-Guidi e il ministro Tarchi al confine?
Soltanto al ritorno da Grandola verso Menaggio, nella sera del 26, Mussolini mi disse: “Birzer, dica ai suoi uomini di prepararsi, partiamo subito per Merano”.
Nella scorta di Mussolini – dal 26 aprile – era presente anche il Capitano Otto Kisnat (Kriminal Inspektor dei servizi segreti di sicurezza delle SS). Kisnat in una sua intervista del 1968 al giornale “Epoca“3 (Fig. 4), riferisce un particolare riguardante l’arresto dei gerarchi Buffarini Guidi e Tarchi; Kisnat asserisce che Mussolini gli disse, a Grandola:
«Li ho mandati io a trattare con le autorità di confine la possibilità di passare in Svizzera col mio seguito… ma ora ciò non è più possibile. Partiremo domani, presto, per Merano».
Da queste testimonianze, e da un semplice sguardo ad una cartina geografica, si può quindi capire il motivo della fuga di Mussolini.
Quarta fuga: da Menaggio verso la Germania, il 27 aprile mattina
Sopraggiunge a Menaggio, in serata del 26 aprile, un convoglio militare tedesco – della contraerea “FlaK” – in ritirata verso Merano e la Germania, che si ferma appunto nel paese per la notte: 38 autocarri e oltre 200 soldati ben armati. Sembra una fortunata coincidenza, anche se sono molte formazioni militari tedesche, in quelle convulse giornate, che si ritirano verso il Brennero.
Fritz Birzer, il tenente tedesco che scorta Mussolini, con il compito di condurlo in Germania, caldeggia naturalmente l’idea di aggregarsi tutti alla ben munita colonna dei camerati tedeschi, e la mattina seguente proseguire con loro per Merano e poi per l’agognato Brennero.
Mussolini e i suoi gerarchi (con le famiglie, quasi cento persone), partono verso le 6:00 del mattino del 27, aggregati alla colonna della FlaK; lunga circa un chilometro, alle 07:15, viene bloccata appena fuori dall’abitato di Musso, 12 km più a nord, da un posto di blocco delle Brigate Garibaldi: si tratta di alcuni tronchi d’albero messi di traverso in un punto molto stretto della via lungolago, presidiati da pochi uomini della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici” [5-6], comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, “Pedro”.
Dopo una breve sparatoria, i partigiani (inizialmente, non più di una dozzina, armati di pistole e mitra) intimano la resa alla colonna di oltre 200 militi. Solo fino ad un mese prima, sarebbe stata una carneficina per il gruppetto partigiano, ma ora si era a fine aprile: iniziano le lunghe trattative, che si protrarranno fino al primo pomeriggio.
Il Brigadiere della Guardia di Finanza Giorgio Buffelli, che con gli altri suoi commilitoni collaborò quel giorno a Dongo con i partigiani della 52a per mantenere l’ordine, scrisse nella sua relazione sui fatti di Musso [3].
“Alle ore 13 circa fecero ritorno i parlamentari e il comandante Pedro ci comunicò che il comando di Chiavenna aveva deciso di lasciar passare i tedeschi, armati, senza fare uso delle armi; nessun italiano però doveva passare con la colonna stessa e per cui noi dovevamo visitare tutte le macchine per tale scopo. Per cui fu deciso di far proseguire la colonna fino a Dongo dove ebbe luogo la visita a tutti gli automezzi”
L’esito della trattativa, con l’accordo con i tedeschi, non deve apparire strano: il comandante Pedro aveva già avuto informazione della possibile presenza di Mussolini e degli alti gerarchi fascisti nella colonna: era importantissimo poterli catturare.
Quinta fuga: travestimento finale!
A quel punto, ultimo colpo di teatro: Mussolini, su consiglio di Birzer e con il permesso del Comandante della colonna tedesca, indossa un cappotto e un elmetto da sottufficiale tedesco, sale sul camion numero 34 (targato WH 529507), occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare: finge di dormire, come fosse ubriaco.
A nessun altro italiano sarà concesso di tentare di imitare il comportamento di Mussolini nel convoglio, nascondendosi come lui. La letteratura revisionista ha tentato di negare il travestimento del duce, sempre per malintese questioni di “onore”. La già citata intervista di Fritz Birzer chiarisce anche questo punto:
Su questo episodio nessuno può minimamente smentirmi, perché fui io stesso a ordinare a un sergente della FlaK di consegnare a Mussolini cappotto ed elmetto. Lo feci perché ritenevo che soltanto in quel modo, confondendosi con i nostri soldati, sarebbe forse riuscito a sfuggire ai partigiani.
Il capitano Kisnat era presente alla scena, ma non disse nulla, né per opporsi alla mia iniziativa né per approvarla. Claretta Petacci invece supplicò il duce di ascoltare il mio consiglio. Così Mussolini, anche se malvolentieri, indossò il cappotto della FlaK e si mise l’elmo d’acciaio sotto il braccio. Salì poi sul camion dalla parte posteriore per non essere visto dai partigiani che si trovavano davanti alla nostra colonna.
Durante l’ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, – condotta dai partigiani sotto la direzione di un maresciallo della Finanza, Francesco Di Paola – Mussolini, nascosto sotto una panca del camion n. 34, viene riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri: viene subito avvertito il più alto in grado nelle immediate vicinanze, cioè il vicecommissario politico Urbano Lazzaro “Bill”.
Bill sale sul camion, riconosce Mussolini, lo invita ad alzarsi [6]: “Camerata!”, “Eccellenza!”, dice a voce alta Bill, ma Mussolini fa finta di nulla e non si muove. Bill allora dice a voce ancora più alta “Cavaliere Benito Mussolini!”. Al che “il duce” ha un soprassalto e lentamente si alza in piedi: Bill lo disarma del mitra e di una pistola, lo arresta e lo porta nella sede comunale,
Riferimenti
[1] Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza 1966.
[2] Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Mondadori, 1995.
[3] Massimo Zucchetti, Mussolini ultimi giorni, Smashwords 2018, scaricabile gratuitamente qui:
https://www.researchgate.net/publication/323365500_MUSSOLINI_ULTIMI_GIORNI
[4] Pierfranco Mastalli, L’arresto di Mussolini a Dongo e la resa della Colonna Tedesca a Morbegno e a Colico (27 e 28 aprile 1945)”, Rivista di Storia e Cultura del Territorio “Archivi di Lecco e della Provincia” n 2 (monografico), Ed. Cattaneo, aprile/giugno 2011.
[5] Pier Luigi Bellini delle Stelle, Urbano Lazzaro, Dongo ultima azione, Mondadori, Milano, 1962
[6] Urbano Lazzaro, Il compagno Bill: diario dell’uomo che catturò Mussolini, SEI, Torino, 1989
1 Enzo Biagi, Pertini ricorda l’incontro con Mussolini, 25 aprile 1945. https://www.youtube.com/watch?v=b7JZtVsQEqc dal minuto 6:40.
2 Jean Pierre Jouvet, Da Como a Dongo. Verità sull’arresto di Mussolini. Intervista con Fritz Birzer, Il Comandante della scorta tedesca, “L’Arena” di Verona, 1.3.81 e 3.3.81, https://www.larchivio.com/xoom/birzer.htm
3 Giuseppe Grazzini, “Il Tenente (sic) Kisnat sono io”, Epoca, 18 e 25 agosto, 1968, n° 934-935.
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Maurizio
doveva essere a capa sotto per almeno 10 anni ancora con la volante rossa in giro a defascistizzare la borghesia ed il clero italiano ma Togliatti pensò erroneamente che i ratti fascisti si sarebbero dissolti per sempre ed invece quel lercume c’è
ancora, persero la guerra.. ma
vinsero la pace e certamente non sarà con una sciacquetetta di Schlein che voteremo pagina con i fasci di oggi, a meno che..
Pasquale
In galera…e via la chiave.