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Il comunismo nel Novecento? Una sconfitta, non un fallimento

Ieri la prima giornata di lavori del Forum “Elogio del comunismo del Novecento”. Oggi si prosegue la mattina con la seconda e terza sessione, poi interruzione per partecipare alla protesta contro il divieto di manifestazione. I lavori riprenderanno domenica mattina con la quarta sessione.

Pubblichiamo il testo dell’introduzione ai lavori del Forum di Mauro Casadio della Rete dei comunisti.

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LA GRANDE RIMOZIONE

In questo nuovo cambio epocale si stanno determinando le condizioni per affrontare in modo più oggettivo la grande rimozione politica fatta, in buona e mala fede, sul movimento di classe e comunista del ‘900; necessità che si impone non solo in termini storici ma anche per le prospettive di una, ora di nuovo, necessaria trasformazione sociale. Come RdC già dagli anni ’90 sentivamo questa esigenza tanto da produrre alcune pubblicazioni, titolate “Il bambino e l’acqua sporca”, per indagare più a fondo quelle esperienze cercando, appunto, di salvare il “bambino”.

Ci fermammo, però, in quella ricerca ed elaborazione sia per nostri limiti soggettivi sia perché, nel contesto dell’affermazione globale del neoliberismo, rischiavamo di oscillare tra suggestioni ipercritiche e continuismo dogmatico vista l’impossibilità di avere verifiche certe nella realtà. Ciò non esclude che avessimo già una idea di ciò che era avvenuto e si era prodotto nelle esperienze comuniste dell’est e dell’ovest dell’Europa in particolare, luogo dal quale era partito il moto rivoluzionario mondiale del Novecento.

Se per la soggettività gli esami non finiscono mai, sul piano dell’oggettività la situazione attuale viene ora in nostro aiuto in quanto la crisi di egemonia dell’imperialismo euroatlantico ci fornisce più strumenti per concepire una nuova possibilità di cambiamento di sistema.

Certo se il capitalismo non fosse ricaduto ancora una volta nelle sue intime contraddizioni di fondo parlare del movimento comunista del ‘900 sarebbe possibile farlo solo in termini di ricerca storica, utilissima ma non di nostra diretta competenza.

La fine della “fine della storia”.

Invece la fine della “Fine della Storia” ci permette di tracciare una linea rossa dalla rivoluzione Bolscevica del ’17 utile ad interpretare gli andamenti del conflitto di classe internazionale, ma soprattutto definire il ruolo avuto da essa nel processo di emancipazione generale di tutta l’umanità.

Ed anche di rivendicarlo come prodotto diretto di una grande soggettività, pur contraddittoria, che si è misurata per la prima volta con un progetto di trasformazione sociale radicale e razionale che oggi va colto e rilanciato, nelle forme e condizioni specifiche della nostra contemporaneità, in tutta la sua grandezza e complessità.

Almeno questo è il nostro punto di vista come RdC, la tesi che vogliamo sostenere.

D’altra parte possiamo dire di avere il “vantaggio” di una lettura storica relativa al susseguirsi di diverse fasi in tempi non lunghi come gli ultimi 50 anni, da quella rivoluzionaria a cavallo degli anni ’60 e ’70, alla crisi del socialismo reale fino alla perdita di egemonia del capitalismo reale, che ci permette di analizzare non solo le tendenze insite in questi veloci cambiamenti ma anche le potenzialità di trasformazione che riemergono e che per noi sono la riproposizione del socialismo possibile oggi.

D’altra parte per i comunisti è fondamentale avere il senso della Storia, leggere le forze materiali che la determinano, collocare se stessi dentro tale processo ma rifuggendo da ogni visione teleologica come quella avuta sulla inevitabilità del socialismo che dalla seconda internazionale in poi ha prodotto distorsioni e cecità politica.

Nel Forum fatto nel marzo del ’23 “Il Giardino e la Giungla”, e nei lavori prodotti precedentemente, avevamo individuato una tendenza sul piano strutturale che andava dalla implosione dell’URSS e dalla progressiva integrazione della Cina nel mercato mondiale alla crisi attuale letta come crisi di egemonia dell’imperialismo storico. Questa crisi ha come premessa materiale i limiti che si pongono alla espansione illimitata, quale tendenza immanente, del Modo di Produzione Capitalista sia per le contraddizioni interne sia per i limiti oggettivi che incontra a cominciare dai fattori di crisi ambientale.

La nostra lettura parte non dagli specifici dei singoli capitalismi ma dal moto generale del MPC che, trovando i limiti suddetti, cerca di ricreare i possibili spazi di crescita non più nella crescita generale, come è stato circa dal 1991 al 2007, ma nei molteplici fattori di competizione interna tra soggetti economici e statuali producendo la spinta verso la frammentazione del mercato globale ora confermata dal conflitto economico, politico e militare che sta attraversando il mondo.

Si può dire che la pervasività e trasversalità del conflitto oggi è molto più ampia di quella conosciuta durante i decenni del bipolarismo URSS-USA nato dopo la seconda guerra mondiale con alcuni momenti apicali: in Corea negli anni ’50, in Indocina fino ai ’70, nelle guerre israelopalestinesi ed in alcuni momenti rivoluzionari come quello cubano.

Indubbiamente il conflitto di classe interno ai singoli paesi fu molto alto sia in quelli capitalisticamente avanzati che in quelli del terzo mondo, dove spesso si è espresso con guerriglie e colpi di Stato, ma sempre comunque dentro un equilibrio sostanziale tra le potenze in campo rotto solo con la fine dell’URSS.

Oggi la situazione è diversa, non siamo in presenza di un equilibrio paragonabile al bipolarismo precedente ed avviene in un ambiente sociale molto diverso. Infatti oggi le diseguaglianze sono molto più accentuate e diffuse di prima in quanto la capitalistizzazione delle economie ha coinvolto di fatto quasi tutti i paesi scomponendo i sistemi sociali precedenti, a partire da quelli socialisti, e riproducendo gli squilibri classici delle società capitaliste. Questo avviene, seppur con tempi politici e materiali diversificati, anche nei paesi imperialisti in cui si incrementano crisi sociali profonde ed irrisolvibili.

Questa macerazione delle condizioni sociali complessive costituisce la premessa di molti conflitti e rotture che si riverberano nell’ambito politico, vedi la vicenda Trump e l’estrema destra risorgente nella UE, e spesso tracimano in quello militare a causa del conflitto geopolitico prodotto dalla frammentazione prima citata.

Le tracce di questo processo sono presenti ovunque. In occidente il rischio di una competizione interna più accesa tra USA e UE è latente ma è reale, la guerra in Ucraina è servita a interrompere le relazioni in particolare tra Germania e Russia mettendo però in difficoltà economiche la UE e si incrementerà ulteriormente se gli USA facessero una scelta “neoisolazionista”trumpiana; come è altresì reale la competizione monetaria tra Dollaro ed Euro.

Sempre nel quadrante occidentale del pianeta la riduzione di ruolo dell’imperialismo e del colonialismo produce conflitti e guerre. Il Sud Africa, con gli altri paesi del cono sud, ha scelto la strada dell’alternativa ed ha aderito ai BRICS; nell’Africa subsahariana interi paesi stanno voltando le spalle al colonialismo francese anche con conflitti militari mentre i paesi arabi, dopo gli interventi in Libia, Siria e in Iraq, vivono una condizione permanente di guerre e guerre civili. A questo scenario si aggiunge il ruolo genocida e di gendarme che continua a svolgere Israele contro i palestinesi, ma anche in relazione al Libano, all’Iran e all’insieme dei popoli mediorientali.

L’altra frattura importante è stata la nascita dei BRICS in quanto quella che può crescere è un’area economica autonoma e competitiva dall’Euroatlantismo che rafforzerebbe la sua crisi di egemonia con effetti economici e politici rilevanti indebolendo ulteriormente gli USA oltre che la UE.

Non è certo esplosa per caso la guerra in Ucraina che aveva come obiettivo, ad oggi fallito, di riprodurre con la Russia quello fatto a suo tempo con l’URSS aprendo un fronte militare sulla pelle in particolare degli Ucraini, usati come carne da cannone e che non accenna a chiudersi.

Anche le vicende Latino-Americane relegano il “cortile di casa USA” alla memoria in quanto esiste un fronte nettamente antimperialista che va da Cuba, con la sua grande capacità di esperienza e di lotta, al Venezuela, al Nicaragua, alla Bolivia che mantengono una prospettiva socialista mentre gli altri paesi del subcontinente oscillano tra posizioni reazionarie e riformiste in quanto conferma di una situazione in transizione, come hanno dimostrato le recenti manomissioni diplomatiche ed aggressioni internazionali fatte in occasione delle elezioni Venezuelane.

Se volgiamo lo sguardo nel quadrante orientale del mondo la situazione potenzialmente è ancora più esplosiva perché gli USA stanno costruendo un cordone “sanitario” attorno alla Cina, dall’Australia al Giappone con un accordo militare denominato AUKUS. Quella Cina con una dimensione demografica, economica, finanziaria e militare tale da rimettere in discussione a livello mondiale il primato degli USA, che ancora ragionano nei termini tipici della guerra fredda, sia per mancanza di prospettive alternative che per miseria culturale della sua classe politica democratica e repubblicana.

In circa trent’anni il neoliberismo è riuscito a produrre una crisi finanziaria piegando interi paesi come la Grecia, crisi sociali ed umanitarie fatte in nome della democrazia e dei diritti civili, due guerre come quella in Ucraina e quella pluridecennale della Palestina che invece di risolversi tendono ad estendersi ed incancrenirsi, oltre una miriade di conflitti catalogati sotto le categorie di integralismi religiosi o di nazionalismi prodotti dalla mondializzazione del sistema capitalista. Infine il tutto spinge verso la possibilità di una guerra nucleare che ormai viene evocata esplicitamente e programmata dai paesi che possiedono questo strumento di morte.

Insomma oggi possiamo dire che il capitalismo “vittorioso” ci sta regalando per ora un futuro di guerra “a pezzi”, una regressione sociale e politica generalizzata ed in prospettiva forse anche di guerra nucleare obbligandoci a ragionare sul percorso storico e sul ruolo avuto dal movimento di classe, di quello comunista e dei paesi socialisti nel secolo scorso.

I paradossi di una storia che non è finita.

Non solo è evidente la barbarie capitalista ma vanno rilevati una serie di paradossi da questa generati che mostrano quanto quel ‘900 è presente nella storia attuale alla faccia di chi “coraggiosamente” negli anni ’80 qui in Italia ebbe a dichiarare che la spinta propulsiva della rivoluzione di Ottobre fosse esaurita.

Il primo paradosso che si manifesta è l’odierna alleanza tra Russia e Cina, certo non in termini rivoluzionari come avremmo voluto ma sicuramente come elemento di crisi dell’egemonia occidentale. La rottura voluta da Kruscev nel ’56 non solo è stata un errore strategico ma ha mostrato il limite teorico del gruppo dirigente che si andava affermando alla direzione del PCUS in quanto lo scontro, anche in quella fase, con il mondo occidentale non era esclusivamente militare ma di capacità di crescita complessiva delle forze produttive e della loro possibile socializzazione in quelle società.

Determinare quella dimensione produttiva euroasiatica avrebbe offerto una possibilità di affermazione della prospettiva socialista molto più ampia di quanto sia stato poi effettivamente possibile. Questa necessità paradossalmente si ripropone in forme diverse e non socialiste ma è oggettivamente la base materiale necessaria per rompere, anche oggi, con il dominio occidentale.

La Russia anticomunista di oggi, come ulteriore incongruenza, di fronte allo scontro internazionale è costretta, per darsi legittimità e identità, a ricorrere a scadenze e simboli propri dell’Unione Sovietica, gli unici ad essere irriducibili alla rappresentazione ideologica della “civiltà” occidentale.

L’altro paradosso che si sta evidenziando è che nello schieramento internazionale contrapposto all’imperialismo si trovano quei paesi che hanno ancora un orientamento socialista se non dichiaratamente comunista oppure hanno dato vita alle lotte di liberazione, spesso vittoriose ma che poi hanno accettato i compromessi imposti dalla fine dell’URSS. Oltre la Russia e la Cina c’è Cuba, Nicaragua, Sud Africa, Iran, Corea del Nord, Yemen, Siria, Angola, Mozambico.

Questo è stato possibile perché nel MPC il capitale tende ad espandere la propria pervasività e per fare questo generalizza le forze produttive, la scienza, la tecnologia, la produzione, le infrastrutture e la circolazione di merci e la trasformazione della forza lavoro. Questo processo ha permesso la crescita anche di quella parte del mondo ormai non più alternativa come sistema economico ma non immemore della natura e della storia dell’occidente colonialista.

Molti e continui i detonatori politici che hanno smontato il mito del progressivismo liberale. Alcuni tra i tanti:

La crescita dirompente della Cina.

L’umiliazione imposta alla Russia portando la NATO fin dentro i suoi confini nonostante le rassicurazioni date a Gorbaciov.

La resistenza alle continue interferenze politiche in alcuni paesi come Cuba e Corea del Nord.

Le guerre coloniali iniziate fin dal 1991 contro tutti quei paesi che dovevano essere asserviti, dal Medio Oriente all’America Latina fino all’Africa passando per la ex Jugoslavia.

La truffa operata sulla pelle del popolo Afghano prima usato ed armato contro i sovietici e poi occupato per 20 anni con la retorica sulle donne oppresse e dei diritti civili.

Tutto ciò ha aperto la strada per la creazione di quella maggioranza di paesi oggi predisposti ad una alternativa economica e sociale. Alternativa che si materializza nei voti del Sud del Mondo espressi durante le Assemblee Generali dell’ONU.

Verso il multipolarismo

La forma che sta assumendo il cambiamento attuale è dunque quella del mondo multipolare, è uno scenario che rispecchia molto parzialmente il nostro pensiero sul cambiamento sociale, non ha necessariamente e formalmente l’obiettivo del socialismo, trascina con se elementi arretrati quali quelli religiosi ma è l’unica prospettiva, al momento, che può mettere in crisi il dominio occidentale. Questo per noi è fondamentale in quanto riteniamo sia necessario per i comunisti continuare a lottare e mettere in crisi il proprio imperialismo.

Se questa è la condizione oggettiva, storica, in cui ci troviamo riteniamo altrettanto importante avere le idee chiare di cosa stiamo parlando evitando illusioni di ritrovate patrie socialiste e capire quale funzione svolgere per le forze comuniste presenti nelle cittadelle imperialiste.

Per essere chiari, ed al di là delle tattiche politiche necessarie in una situazione di rimescolamento generale, continuiamo a pensare che Putin faccia parte di quel ceto politico-finanziario parassitario che ha tradito l’Unione Sovietica e la prospettiva socialista; ovviamente saremmo contenti se quello che sta avvenendo implicasse una modifica delle prospettive della Russia ma su questo manteniamo un certo scetticismo. Indubbiamente la difesa nazionale della Russia è una grossa contraddizione per l’occidente che va interpretata e gestita politicamente ma questo non deve incidere su una nostra capacità di lettura razionale, in quanto comunisti, dei complessi processi in atto.

Sempre per non divagare è per noi utile rappresentare con chiarezza quello che pensiamo sulla Cina. Nel gennaio del 2021, in piena pandemia partita da quel paese, abbiamo tenuto un Forum per elaborare un giudizio più organico su quello che stava accadendo nel paese, allora, più popoloso del mondo.

Senza entrare nel merito di quel confronto, il dato di fondo era che il PCC aveva accettato negli anni ’80 un rapporto politico con gli USA, scelta sostenuta già precedentemente da Mao e simbolica fu la partita a Ping Pong tra USA e Cina tenuta nel 1971, ed economicamente ha scelto di gestire il MPC operando su questo una sorta di scommessa strategica con i propri fini socialisti.

Questa, dal nostro punto di vista, non si è ancora conclusa ma certamente in parte è stata vinta con una crescita economica enorme e con un altrettanto enorme ruolo internazionale acquisito negli ultimi anni. Ma va detto anche che da questo punto di vista le contraddizioni che vive la Cina sono grandi, dal ruolo dello Stato nell’economia, alla corruzione diffusa, al rischio di far prevalere gli “istinti animali” del MPC visto che sul controllo di questo si basa la scommessa del PCC.

Per noi i rischi ci sono e sono molti e pensiamo che ne vada fatta una analisi lucida, ma su un punto abbiamo le idee abbastanza chiare cioè che la Cina non è un paese imperialista e questo lo affermiamo non per principi ideologici ma per un motivo materiale.

Se assumiamo una visione d’insieme, dallo specifico del “capitalismo” cinese ai verificati limiti allo sviluppo del MPC, la domanda da farsi è se in una situazione di questo tipo è possibile ipotizzare il passaggio del testimone imperialista dagli USA alla Cina, come molti sostengono.

In altre parole non riteniamo che ci siano le condizioni oggettive (lo spazio materiale) per un tale sviluppo a meno che non ci sia una guerra mondiale/nucleare con una distruzione generalizzata delle forze produttive i cui esiti appaiono difficilmente prevedibili per tutti i soggetti in campo.

Forse è proprio grazie alla coscienza di questa condizione generale che prende quota l’ipotesi del multipolarismo ed entra in crisi il comando occidentale a scala globale. Dunque l’uso del MPC, con tutte le contraddizioni e diseguaglianze che produce, non implica necessariamente una evoluzione imperialista della Cina.

Nel passato della Storia del capitalismo sono già avvenuti dei passaggi da una egemonia di un paese ad un’altra, è avvenuto con l’affermazione dell’Inghilterra divenuta l’impero più grande a livello planetario e con l’affermazione dell’egemonia Statunitense dopo la seconda guerra mondiale.

Il successo di questi imperialismi egemoni si è determinato non principalmente in via militare ma con la capacità di crescita industriale, economica, politica divenuta modello per i capitalismi nascenti dell’800 per quanto riguarda l’Inghilterra e per gli USA l’affermazione del mondo unipolare degli ultimi quarant’anni. Oggi quella dimensione della crescita per riproporre una nuova egemonia imperialista in relazione al capitale circolante a livello mondiale è per noi evidentemente difficile se non impossibile.

La Storia non è finita. La Storia si è rimessa in marcia ridando ruolo alle forze di classe nei paesi fuori dalle cittadelle imperialiste ed a quei paesi che in un modo o in un altro hanno inciso nella storia del ‘900. Per questo non siamo d’accordo con la categoria del fallimento del socialismo e pensiamo che la sconfitta ci sia stata, è stata evidente, va analizzata e compresa ma la sconfitta non è la chiusura di ogni prospettiva rivoluzionaria poiché oggi le contraddizioni stesse del capitale la rivitalizzano.

Questa valutazione non è un messaggio consolatorio per chi è “nostalgico” ma è invece un segnale che intende ridare una speranza a chi è colpito e penalizzato, in particolare in Europa, dal distorto sviluppo attuale: i lavoratori, le giovani generazioni, gli immigrati, e riaffermare che il cambiamento è in atto e che la partita si riapre per tutti coloro che la vogliono giocare senza illusioni e con la consapevolezza dello scontro brutale che implicherà questo livello delle contraddizioni.

Certamente parallelismi con il ‘900 sono fallaci, pensare di riprodurre quelle dinamiche nel nuovo contesto internazionale modificato sul piano sociale, politico e dei rapporti di forza internazionale è un errore di dogmatismo che non fa i conti con la potente dialettica “rivoluzionaria” prodotta dal Capitale in questi ultimi decenni.

Al contrario abbiamo bisogno, rivendicando comunque la nostra storia ma rimettendo mano alla cassetta degli attrezzi marxista, di adeguare gli strumenti analitici, di cogliere i caratteri nuovi e, per molti tratti, inediti della presente fase del capitale tentando di operare, anche per ciò che attiene alla soggettività comunista, un salto di qualità dell’agire politico ed organizzativo all’altezza dell’attuale soglia dello scontro.

Infatti va recuperato, valorizzato e rilanciato il movimento verso il socialismo, convinti di stare ancora dentro un processo storico di cambiamento del mondo essendo coscienti che l’attuale assetto sociale potrà solo peggiorare le condizioni di tutta l’umanità inclusi i popoli che vivono nei paesi imperialisti. Di questo noi come RdC ne siamo profondamente convinti ed è una delle ragioni costituenti della nostra soggettività e del nostro processo di costruzione organizzata.

Questa però non è solo una affermazione aprioristica ma nasce dalla constatazione che gli stessi sacri principi della borghesia internazionale stanno logorandosi dentro il riemergere di contraddizioni irrisolvibili e sempre meno occultabili dalle fumisterie ideologiche e narcotizzanti messe in atto dagli apparati ideologici del capitale.

Il neoliberismo, particolarmente dopo la fine dell’URSS e nei primi anni 2000 con il pieno dispiegamento della cosiddetta Globalizzazione, aveva promesso possibilità di crescita per tutti nella riaffermazione delle libertà borghesi, ma quello che si sta manifestando è una diseguaglianza economica e sociale sempre più profonda, sempre più riconosciuta dalle stessi fonti padronali, che aumenta la distanza tra popoli, all’interno stesso dei popoli, tra generazioni. Non a caso alcuni accademici, di parte borghese, alludono ad una crisi di civiltà delle società liberali e/o capitalistiche.

Il neoliberismo aveva affermato che lo Stato era un danno e che andava limitato al massimo procedendo con le privatizzazioni di aziende e servizi pubblici, con riduzione del personale a cominciare dalla sanità ed in tutti i servizi gestiti dal welfare.

Nei fatti le politiche liberiste hanno ingrassato i profitti delle grandi imprese, della finanza ed hanno impoverito non solo i settori popolari ma anche il “ceto medio” quale base sociale e politica per la stabilità dei governi. La pandemia del Covid 19 ha mostrato come l’impoverimento dei servizi pubblici producesse danni mai visti prima.

Oggi a smentire definitivamente l’assunto di “meno stato e più mercato” emerge chiaramente che il mercato non è in grado di sostenersi da solo ed ha sempre più bisogno del sostegno finanziario e normativo dello Stato e, come definitiva verifica, stiamo assistendo al ritorno del Keynesismo sotto forma di rilancio della produzione militare con tutto quello che ne potrà derivare per la pace nel mondo.

Infine anche il feticcio della democrazia borghese si sta sgretolando, a partire dai paesi imperialisti, con la corruzione sempre più profonda, il moltiplicarsi di fenomeni di grassazione, con una vera e propria degenerazione economica e culturale sempre più pervasiva a causa dell’affermazione delle lobby finanziarie ed industriali.

Anche la degenerazione di classi politiche indecenti, inconsistenti e asservite ai poteri forti sono un altro sintomo di crisi del sistema politico borghese come lo è la crescita dell’astensionismo che, nei paesi dell’est Europa, è arrivato al 70% nelle ultime elezioni Europee.

Elezioni durante le quali è emerso un ulteriore paradosso nelle elezioni in Germania dove le forze antigovernative di destra hanno ottenuto la maggioranza in tutta la ex Germania dell’est rialzando quel muro politico che qualcuno pensava di aver abbattuto.

Esito ripetutosi nelle due elezioni regionali successive che hanno riconfermato la divaricazione politica tra i Lander dell’est e quelli dell’ovest rafforzata proprio dalle politiche sociali di un paese capitalista, nonostante la cinica annessione fatta nel ’90.

Non solo, ma laddove i risultati elettorali non sono quelli desiderati vengono contestate le elezioni come elezioni farsa e vengono messi in moto ad arte movimenti che puntano a ristabilire l’ordine voluto, la vicenda Venezuelana ne è l’ultimo esempio in ordine di tempo. Cosa che si è ripetuta in altre forme anche in Francia con l’indicazione di un presidente del consiglio Gollista nonostante la vittoria e l’opposizione del Nuovo Fronte Popolare.

E noi?

Ricollocare la storia del movimento di classe e comunista del ‘900 è un elemento importante non solo per il passato ma anche per le prospettive; certamente va tenuto conto che questo tipo di ricostruzione di un filo rosso rivoluzionario noi lo dobbiamo svolgere in Italia ovvero nell’Unione Europea, ovvero in un polo imperialista di prima grandezza nonostante le sue molte contraddizioni.

Un polo che stenta a divenire entità statuale sulla base dei criteri storici a cui siamo abituati ma che procede, con percorsi tortuosi, verso una unificazione “sui generis” degli Stati europei, in questo senso la guerra in Ucraina sta fornendo un pretesto forte sia sul piano politico sia su quello più direttamente industriale. Va ricordato in proposito che la Germania e l’Italia si sono costituiti nel secolo XIX Stati Nazionali proprio grazie all’uso dello scontro militare.

Il piano proposto da Draghi parte dall’opportunità offerta dalla guerra in Ucraina ma punta su una omogeneizzazione del sistema industriale continentale fondamentale per procedere nel faticoso percorso di unificazione politica della UE.

Riaffermare un ruolo dei comunisti e del movimento di classe è complesso e difficile perché l’imperialismo, mentre sfrutta e produce diseguaglianze nel resto del mondo, deve in qualche modo non far precipitare le proprie classi subalterne in una condizione di povertà. Ciò per motivi politici, e questi già si vedono nell’astensionismo in crescita e nella volubilità dell’elettorato, sia perché l’occidente è pur sempre il mercato dove realizzare i profitti nella valorizzazione delle merci e dei servizi oltre che con le forme di sfruttamento del lavoro tecnologicamente più evolute.

Non si può prescindere, dunque, nelle analisi e nelle conseguenti valutazioni possibili da questo dato strutturale che, seppure viene sempre più ridimensionato dalla crisi generale, determina una condizione specifica in cui l’esistenza del cosiddetto “ceto medio” contiene le possibilità effettive di conflitto e di crescita per una forza radicalmente antagonista.

Agiscono in questa direzione di “freno” anche altri elementi strutturali quali la scomposizione tecnica e giuridica della forza lavoro; sappiamo bene che l’aumento della composizione organica del capitale, ancor più nei centri imperialisti, riduce la componente del lavoro vivo, sia manuale che mentale, e dunque ne deve abbassare necessariamente i costi cosa che avviene tramite la diffusione della precarietà in forme variegate sia nel settore privato che in quello pubblico.

Significativa è, in questo senso, la modalità mistificante con cui vengono fatte le statistiche sull’occupazione da cui risulta una ridicola percentuale di disoccupati in quanto basta aver lavorato 1 ora nella settimana in cui viene effettuata la rilevazione statistica per risultare statisticamente occupato a tutti gli effetti.

Infine la difficoltà principale che incontriamo nell’organizzazione del conflitto è il prodotto del tradimento delle organizzazioni storiche, politiche e sindacali, e della loro integrazione nella governance capitalistica che hanno portato alla scomparsa della coscienza di classe, all’assenza di riferimenti politici e culturali ed allo strapotere delle classi dominanti. Queste, infatti, operando in assenza di ogni tipo di coscienza e resistenza, hanno gioco facile non solo per ottenere i loro obiettivi ma anche per avere l’adesione passiva all’ideologia dominante.

Questo aspetto è particolarmente rilevante in Italia, a differenza di altri paesi europei come la Francia, la Spagna o la Grecia, dove i ceti dirigenti di derivazione PCI e CGIL sono stati particolarmente abili ad evitare che si ricostituissero forze politiche e sociali in grado di rappresentare una alternativa politica credibile potendo così riportare sotto l’ombrello dell’ideologia neoliberista le classi subalterne che fino agli anni ’80 avevano lottato e si erano battute per una società migliore.

Risalire la china prodotta dalle variegate forme del pentitismo nostrano non è facile proprio perché in chi è penalizzato c’è la convinzione che l’unico mondo possibile è questo, e bisogna accettarlo perché non ci sono alternative.

In realtà l’azione delle borghesie per mantenere in Italia ed in Europa l’egemonia si è collocata su diversi piani: il primo lo abbiamo visto con la politica dello “sgocciolamento” economico verso le classi subalterne, poi con un uso della repressione accorto ma sempre più presente, e su questo la sinistra di governo è stata sempre in prima linea e la più solerte. Anche se ora il governo Meloni cerca di superarla con il ddl 1660.

Ma l’arma principale che garantisce ancora la controllabilità politica dall’interno della classe è l’affermazione, la predominanza dell’ideologia borghese dove ognuno deve pensare a se stesso e dove si è convinti che non si possa immaginare l’esistenza di un mondo migliore.

Se sul conflitto politico e sociale e sulla repressione le forze antagoniste producono risultati a volte pure di rilievo, la sfida sull’ideologia intesa come concezione del mondo è stata completamente elusa.

Come RdC pensiamo invece che questa sfida sia la più importante, vada raccolta e ricostruita una visione generale, ideologica, al di là della paura delle parole a cui hanno tentato di assuefarci, perché il ruolo attivo della soggettività è l’unico che può lavorare per una prospettiva di cambiamento.

Lo “spontaneismo”, il “basismo”, “l’economicismo”, “il pan sindacalismo”, “l’elettoralismo” infatti, si sono esauriti nel momento in cui è stato definitivamente consumato il capitale politico, sociale e organizzativo del movimento di classe e di sinistra in continui tentativi politici fallimentari. Quel capitale inteso come “tessuto” materiale e base della coscienza di classe costruito proprio nello scontro politico del ’900 affermatosi con forza dalla rivoluzione bolscevica e resistendo per decenni ad un nemico certamente più forte.

Questo nostro Forum, dunque, titolato non provocatoriamente “Elogio del Comunismo del ‘900” nasce proprio dall’esigenza di costruire un’altra visione del ruolo del movimento comunista e di classe ed un altro punto di vista del mondo attuale come elemento costitutivo di un processo politico dove vogliamo riaffermare che da una sconfitta si può sempre rinascere, anche in quella avuta con le prime, difficili esperienze socialiste affermatesi per circa settanta anni nel ‘900.

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