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Un anno dopo il 7 ottobre

Un anno fa scrivevamo a caldo su questo giornale che l’azione militare delle organizzazioni palestinesi il 7 ottobre aveva colto di sorpresa gli apparati di sicurezza israeliani ma anche il resto del mondo, sia quello più ostile che quello più vicino alla causa palestinese.

Adesso il mondo ha subito un brusco risveglio e la comunità internazionale dovrà dire e fare molto di più che dichiarazioni di circostanza e ulteriore complicità con Israele. Ed anche la sinistra italiana ed europea dovrebbero smettere di balbettare banalità e obsoleti luoghi comuni sulla questione palestinese”.

Ed è in tal senso che il genocidio di Gaza deve pesare anche sulle complicità che i governi occidentali avevano garantito e continuano ad assicurare ai progetti di uno stato canaglia come Israele.

Il bagno di sangue al quale abbiamo assistito in questo anno tra Gaza e Israele, ha indubbiamente alzato l’asticella dell’orrore al quale l’umanità del XXI Secolo sembra doversi abituare.

I nemici del popolo palestinese vorrebbero ancora oggi inchiodare la discussione e diffondere la narrazione secondo cui “tutto il male è iniziato il 7 ottobre”. Una tesi insostenibile da ogni punto di vista. Talmente insostenibile che milioni di persone in tutto il mondo l’hanno respinta scendendo per mesi nelle piazze al fianco dei palestinesi anche in moltissimi paesi occidentali.

Quella tesi non solo cancella le migliaia di palestinesi uccisi prima del 7 ottobre nelle varie operazioni militari su Gaza (Piombo Fuso, Margine Protettivo, Guardiano delle Mura, il cecchinaggio di massa contro la Grande Marcia del Ritorno al confine di Gaza etc.), ma omette quello che negli anni precedenti è stato un mix tra il politicidio della questione palestinese e la pulizia etnica attuata attraverso il boom degli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania che rendono praticamente impossibile la nascita di uno Stato palestinese indipendente a fianco di quello israeliano. Invocare oggi il progetto di “due stati per due popoli” come soluzione  è diventato una ipocrisia smentita dalla realtà fattuale sul campo. Le mappe della Grande Israele esibite da Netanyahu negli Stati Uniti prima del 7 ottobre sono lì a confermare tale progetto.

A ipotecare con una lapide di ferro e di fuoco gli scenari del Medio Oriente, sono poi arrivati l’ondata di omicidi politici contro “i nemici di Israele”, i bombardamenti e l’invasione israeliana del Libano ed infine il concreto rischio di una escalation bellica tra Israele e Iran.

Il 7 ottobre rimane dunque un passaggio più che uno spartiacque, un violento e sanguinoso “strattone” nella storia contemporanea che ha portato ai livelli più alti la linea di sangue di cui è costellata la settantennale lotta di liberazione del popolo palestinese. Per i palestinesi rimarrà il giorno in cui è stato sconfitto il mito della imbattibilità militare israeliana.

E’ comprensibile che nella società israeliana e tra gli ebrei che vivono all’estero l’impatto sia stato sensibilmente diverso. Per chi è cresciuto con l’idea di costruire un “luogo sicuro” a fronte degli orrori del passato (in Europa) e delle incertezze del futuro (nel mondo), il fatto che la propria fortezza possa essere stata violata è stato indubbiamente uno shock.

Ma è anche vero che la società israeliana – anche quando prima del 7 ottobre è scesa in piazza per la democrazia – non si è mai posta domande né ha posato lo sguardo oltre il Muro che li separa dalla popolazione palestinese.

Una democrazia con troppi orrori nella pancia è una democrazia decisamente fallace, molto più che imperfetta. E prima poi l’incantesimo costruito e alimentato per decenni si è rotto in modo violento, come forse era inevitabile che fosse.

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