Il Consiglio dei Ministri ha varato la Legge di Bilancio del 2025: una manovra da 30 miliardi di euro raccontata da una montagna di bugie e ispirata alla filosofia di sempre, meno tasse per i ricchi e tagli alla spesa sociale. Alle banche, invece di un prelievo sugli extraprofitti, il governo chiede un prestito sulle tasse future, che poi qualche governo dovrà dare indietro nei prossimi anni.
Vediamo nel concreto le voci principali della manovra.
La conferma del taglio del cuneo fiscale (o contributivo): è il vanto dell’intera manovra, il fumo negli occhi di un incremento delle retribuzioni fino a 35mila euro. Il governo si impegna a confermarlo almeno per i prossimi 5 anni e a spostare l’onere dai contributi previdenziali (che fin qui hanno pesato sui conti dell’INPS e finendo per alimentare la spinta a nuove riforme peggiorative del sistema pensionistico) alle detrazioni fiscali.
In media si tratta di 100 euro in più in busta paga, ma per i redditi più bassi parliamo di molto meno. È la classica partita di giro: l’incremento per i salari è purtroppo solo apparente perché corrisponde ad una perdita netta sul fronte dei servizi pubblici (i tagli). Un’operazione per non aumentare i salari attraverso i rinnovi contrattuali, dando la sensazione di averlo fatto.
Accorpamento delle aliquote IRPEF su tre scaglioni: anche questa è la conferma di una misura già varata lo scorso anno, con la quale si sono ridotti a tre gli scaglioni del prelievo fiscale. Le aliquote saranno quindi del 23% per chi ha redditi fino a 28mila, del 35% per chi arriva fino a 50mila e del 43% sopra questa soglia. Con il taglio del cuneo fiscale queste due misure da sole coprono 14miliardi di euro, quasi la metà dell’intera manovra.
Per avere un’idea della logica di questa misura bisogna operare un confronto con il sistema che era in vigore nel 2020, quando gli scaglioni erano 5, con il primo fino a 15mila euro tassato al 23% e l’ultimo, il quinto, per i redditi oltre i 75mila, tassati al 43%. La misura adottata è intervenuta sul grosso dei contribuenti, che affolla gli scaglioni centrali, che viene premiato dall’appiattimento del sistema. Ma il dato fondamentale è che alla riduzione delle entrate non corrisponde nessun sistema compensativo che vada a recuperare le risorse dai ceti più ricchi. La conseguenza non può che essere un taglio netto alla spesa sociale.
Il taglio della spesa pubblica: secondo le nuove regole della UE, sottoscritte dal governo Meloni, la spesa pubblica non potrà salire nei prossimi anni più dell’1,5% in termini nominali. Considerata l’inflazione prevista per il 2025 all’1,9%, il governo per rispettare i parametri europei dovrà operare dei tagli. Nella Finanziaria 2025 sono previsti tagli lineari del 5% per ogni ministero. Senza chiarire l’entità della spesa il governo ha però affermato, in totale controtendenza con le necessità di recupero del deficit, il potenziamento degli investimenti nel settore della difesa.
Pensioni: le uniche novità di rilievo sono negative, anche se ancora in discussione. Il governo sta studiando incentivi per chi sceglie di rimanere al lavoro pur avendo maturato i requisiti per la pensione. L’altra misura riguarda invece il sostegno ai Fondi Pensione con l’introduzione del semestre di silenzio/assenso: si confida cioè nella distrazione dei lavoratori neo assunti per incrementare i Fondi pensionistici privati.
A parte il vergognoso fumo negli occhi di pochi euro di incremento delle pensioni minime che riguardano più di 2milioni e 100mila persone inchiodate a 614 euro mensili, quindi ben sotto la soglia di povertà, il governo continua ad ignorare il disastro del sistema contributivo che ci condanna a pensioni da fame.
Incentivi all’occupazione e bonus vari: ancora decontribuzioni per le imprese che assumono nella ZES (il Mezzogiorno), un meccanismo che negli anni è servito a deprimere il bilancio dell’INPS ma non ha mai sostenuto la creazione di occupazione stabile e dignitosa. A questo poi si aggiunge una serie di bonus per chi accetta di andare a lavorare oltre i 100 km dalla propria residenza, o a favore della natalità (1000 euro promette il governo per ogni nuovo nato) o l’esenzione fiscale dei fringe benefit aziendali. Tutti sistemi di scarsissimo impatto ma che servono a gestire il grande tema dei salari senza disturbare i padroni.
Perché in fondo la questione è sempre la stessa: i salari. A spiegarlo, numeri alla mano, è stato pochi giorni fa l’Osservatorio delle Imprese della Facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza di Roma, che ha pubblicato un dossier su “Dinamica dei redditi – recenti squilibri nell’industria italiana”. Il Dossier (https://www.ing.uniroma1.it/) descrive bene come dal 2019 al 2023 il fatturato e il valore aggiunto delle aziende medie e grandi in Italia siano cresciuti rispettivamente del 34% e del 33% (quindi di almeno 1/3) ma con una fortissima distorsione nella distribuzione di quest’ultimo.
La parte che è andata al lavoro, racconta l’Osservatorio, è scesa del 12%, mentre quella dell’utile netto è salita del 14%. I padroni si sono spartiti ricchi dividendi ma ai lavoratori non è andato niente. I salari hanno subito un arretramento perciò non solo rispetto al rincaro del costo della vita (l’inflazione) ma anche rispetto ai profitti, che peraltro per l’80%, spiega sempre l’Osservatorio, non sono stati reinvestiti nell’attività aziendale ma sono finiti altrove.
E in questi dati si nasconde la vera filosofia della legge di Bilancio del 2025. La parte di società che si sta arricchendo viene tenuta accuratamente al riparo da qualsiasi intervento. Profitti e rendite non vengono toccati, ma anzi blanditi da continue decontribuzioni e dai massicci finanziamenti del PNRR. Per i lavoratori ci sono solo le partite di giro, soldi che vengono dati in cambio di ricche contropartite con la riduzione della spesa sociale. E per chi è in fondo alla piramide sociale, ci si dovrebbe accontentare dei bonus unatantum.
Dietro il racconto falso ed ipocrita del governo c’è la dura realtà di un Paese senza futuro, dove le disuguaglianze aumentano e tutto viene messo nelle mani delle aziende private. Mentre una piccola parte di società diventa opulenta ed incrementa i consumi di lusso, si allarga l’area della povertà e una fetta di ceto medio sprofonda più in basso. E le risorse vere vengono messe sulla guerra.
È ora di dire basta, è ora di sciopero generale.
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