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L’ultimo rapporto Censis certifica il fallimento di tutta la classe dirigente

Il 58° rapporto Censis appena pubblicato certifica un’Italia in una crisi senza uscita, nonostante il governo continui a vantarsi di ottimi risultati. Ma i dati presentati non possono essere ridotti all’azione di Palazzo Chigi nell’ultimo biennio: lo studio mostra il fallimento di tutta la classe dirigente, almeno dell’ultimo trentennio.

Un fallimento che non è solo economico e sociale, ma potremmo dire anche “ideologico-propagandistico“, rispetto alla narrazione dell’Occidente come la casa della democrazia e dei diritti, e il resto del mondo come la “giungla” da portare sulla retta via.

L’inconsistenza di questa favola si nota facilmente col trattamento riservato alle elezioni in Georgia e in Romania, date per valide solo alla vittoria dei filo-NATO, o i fatti in Corea del Sud. E non attecchisce evidentemente più tra gli italiani, come dimostra il Censis.

Scorriamo i dati più significativi. Tra il 2003 e il 2023 il reddito lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7,0%, e tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024 la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%.

Il raffronto tra i primi otto mesi del 2024 con lo stesso periodo del 2023 segna una riduzione della produzione delle attività manifatturiere del 3,4%. Le presenze turistiche, invece, sono aumentate del 18,7% rispetto al 2013, raggiungendo le 447 milioni nel 2023: un paese-vetrina, più che una città-vetrina ormai.

In termini di produttività, nel periodo 2003-2023 le attività terziarie hanno registrato una riduzione del valore aggiunto per occupato dell’1,2%, mentre l’industria ha segnato un aumento del 10,0%. Quando alcuni politici presentano il turismo come il futuro del paese, gli si dovrebbe sbattere in faccia questi dati.

Il numero degli occupati si è attestato a 23.878.000, in aumento del 4,6% rispetto al 2007. Eppure, l’andamento del PIL non è incoraggiante, e ciò dimostra che da una parte i lavori sono sempre più precari e peggio pagati (come quelli nel turismo e ristorazione, appunto), dall’altra che non riescono a riattivare un mercato interno reso asfittico per favorire le esportazioni.

Il risultato non può essere che la cristallizzazione, se non il peggioramento delle disuguaglianze. Gli italiani lo sentono sulla propria pelle, e infatti l’85,5% è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale.

L’incertezza resa ormai normalità influisce pesantemente sulle giovani generazioni. Il 58,1% dei giovani tra i 18 e i 34 anni si sente fragile, il 56,5% si sente solo, il 51,8% dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressione, il 32,7% di attacchi di panico, il 18,3% di disturbi alimentari. Un giovane su tre è stato in cura da uno psicologo e il 16,8% assume sonniferi o psicofarmaci.

In molti fuggono dal paese per cercare un’alternativa. Dal 2013 al 2022 sono espatriati circa 352 mila giovani tra i 25 e i 34 anni, e più di un terzo erano laureati. Impressionante il dato per cui il numero degli emigranti in possesso di laurea è passato dal 30,5% del totale nel 2013 al 50,6% nel 2022.

Se chi si laurea viene attratto altrove, in generale l’istruzione colpita da tagli e asservita agli interessi privati si mostra incapace di garantire le conoscenze fondamentali. I traguardi di apprendimento in italiano e in matematica sono spesso sotto le aspettative per tutti i cicli di istruzione.

Guardando ai servizi pubblici nel complesso, e all’accesso a consumi fondamentali, il quadro è altrettanto tragico. Ci sono ampie fette della popolazione che ha problemi a raggiungere una farmacia e un pronto soccorso, e la situazione peggiore più è piccolo il comune di residenza.

Tra il 2013 e il 2023 la spesa sanitaria privata pro-capite è aumentata del 23,0% in termini reali, superando i 44 miliardi di euro nell’ultimo anno. Al 62,1% degli italiani è capitato almeno una volta di rinviare un check-up medico, accertamenti diagnostici o visite specialistiche perché la lunghezza delle liste di attesa o per i costi eccessivi.

Se una persona su due, per pagare una prestazione sanitaria, è dovuta ricorrere ai propri risparmi, dall’altra parte il risparmio previdenziale è diventato un miraggio. Il 75,7% degli intervistati pensa che non avrà una pensione adeguata quando lascerà il lavoro. La percentuale, nel caso dei giovani, raggiunge l’89,8%, e diventa una certezza.

Come detto sopra, questa è incertezza di vita che è stata resa normalità, e questo è l’unico vero problema di sicurezza del paese. Eppure, la sicurezza è stata ormai trasformata da questione sociale e questione di ordine pubblico, anche se nell’ultimo decennio il numero di omicidi volontari, di furti e di rapine è crollato (rispettivamente, -32,1%, -35,9%, -41,3%).

Ma se si instilla nelle persone il sentore dell’insicurezza, e poi si alimenta l’idea che questa provenga dal diverso, dall’immigrato o dall’esterno, poi è più facile trovare dei modi per dividere gli sfruttati e metterli l’uno contro l’altro. Col problema, inoltre, che oggi sono quasi 1,7 milioni le persone che detengono regolarmente un’arma da fuoco.

Il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi porta abitudini contrastanti con il proprio stile di vita, come il velo integrale. Il 29,3% è ostile a chi non si conforma alla concezione della “famiglia tradizionale“, il 21,8% si considera addirittura nemico di chi professa una religione diversa: il razzismo è una conseguenza quasi fisiologica di questa narrazione.

Qualcosa non torna, però, rispetto alle volontà della classe dirigente. Se sulle divisioni tra gli sfruttati, utili per la guerra interna, hanno ottenuto qualche risultato, non è passata invece l’idea che l’Occidente sia la culla dei diritti e della democrazia, e che questi vadano esportati anche con la guerra esterna.

Il 68,5% degli italiani ritiene che le democrazie liberali non funzionino più. Il 66,3% attribuisce alla filiera euroatlantica, Stati Uniti in testa, la responsabilità dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. Solo il 31,6% si dice d’accordo con la volontà dei paesi NATO di aumentare le spese militari fino al 2% del PIL.

La crisi di egemonia delle centrali imperialistiche occidentali è ormai evidente. Tutti si rendono conto delle frottole che raccontano a Washington e Bruxelles, e di fronte al quadro sociale ed economico critico che è delineato nello stesso rapporto Censis la volontà maggioritaria non è quella di inasprire la spirale di guerra messa in moto, e che non accenna ad arrestarsi.

Che le democrazie liberali siano una farsa, spesso porta d’ingresso dei fascisti nelle istituzioni, è chiaro ai più, così come che la destabilizzazione di mezzo mondo è opera dell’Occidente in crisi, che cerca soluzioni nella guerra e nell’annientamento del nemico, azioni per cui ha appunto bisogno di più spese militari. Le quali verranno finanziate con altri insopportabili tagli a quelle sociali.

Sta a forze indipendenti e di rottura fare in modo che questa linea logica venga trasportata su un piano politico, cioè venga politicizzata e trasformata in organizzazione e proposta di alternativa sistemica.

Non è facile, e non ci sono ricette preconfezionate. Ma il rapporto Censis dimostra che ci sono i presupposti, e si sviluppano innanzitutto sull’orizzonte più alto delle contraddizioni del capitalismo in crisi, quello della guerra.

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