Che la situazione in Medio Oriente fosse destinata a bruschi cambiamenti rispetto agli scenari di solo pochi mesi fa, lo avevamo intuito e segnalato per tempo sia su questo giornale che nella discussione all’interno del movimento di solidarietà con la resistenza del popolo palestinese.
Già con l’apertura del “terzo fronte” in Libano da parte di Israele abbiamo posto il problema del crescente ruolo centrale e destabilizzante del bellicismo israeliano nella ridefinizione geopolitica in Medio Oriente.
La conferma è arrivata non molti giorni fa, quando Netanyahu di fronte agli avvenimenti in Siria, ha rivendicato per Israele una “funzione centrale” per tutta l’area. Una rivendicazione che ci dice molto sul ruolo che Israele ha svolto e intende svolgere, destabilizzando e colpendo quelli che ritiene i “fronti nemici” della sua guerra senza limiti e le interlocuzioni politiche regionali e internazionali sulle quali fondare la propria centralità.
Poi è arrivata la variabile siriana, che ha scosso nel profondo e spezzato quello che si era definito come “Asse della Resistenza” intorno a Iran, Hezbollah in Libano, Siria, resistenza palestinese, resistenza islamica in Iraq e Ansarallah nello Yemen, in pratica l’unica alleanza regionale tra entità statali e non statali che ha affrontato per anni Israele sul campo.
Tra settembre e dicembre lo scenario è cambiato completamente rispetto a quello messo in moto con l’azione militare del 7 ottobre dello scorso anno da parte dei palestinesi, e poi con lo scatenamento del genocidio a Gaza e l’ondata internazionale di mobilitazione al fianco della causa della Palestina.
Occorre riconoscere che in tre mesi la situazione ha subito un brusco arretramento sul campo che inevitabilmente si ripercuote anche sulle mobilitazioni e sugli orientamenti politici delle stesse.
Per decifrare meglio le conseguenze di quanto avvenuto in Siria occorrerà aspettare che si posi la polvere e che i rapporti di forza tra i soggetti in campo si definiscano almeno provvisoriamente. Che questo accada in forme pacifiche o militari lo sapremo presto. Le variabili interne ed esterne sono ancora più numerose dei fattori già oggi decifrabili. Se l’esercizio di indicare chi trae vantaggio dalla caduta di Assad e della liquidazione della Siria dall’Asse della Resistenza (Israele soprattutto, ndr), è apparso più semplice, quello sugli obiettivi perseguiti dalle forze sul campo e i loro sponsor internazionali non appare altrettanto semplice.
In Siria ci sono più network interni ed internazionali che agiscono con obiettivi diversi. L’unico punto di convergenza tra essi era l’abbattimento di Assad e la sottrazione della Siria all’alleanza dell’Asse della Resistenza.
La Turchia, direttamente e tramite le sue milizie dell’ENS, persegue i suoi obiettivi contro i curdi e di allargamento della sua influenza in Medio Oriente (fino alla Libia). Ankara, insieme al Qatar, è parte integrante del network della Fratellanza Musulmana di cui è parte anche Hamas, il quale si è riavvicinato all’Iran in Palestina ma ha sempre combattuto Assad in Siria.
L’Arabia Saudita e gli Emirati sono la bestia nera della Fratellanza Musulmana. Hanno sostenuto il colpo di stato di Al Sisi in Egitto (e in Libia) e muovono le milizie jihadiste in Siria. Ma l’Arabia Saudita di questi ultimi anni non agisce come quella di qualche anno fa. E’ entrata nei Brics, è alleata con gli USA ma tende anche a giocare in proprio in nome della “Saudi Vision” sul futuro, ha scelto di contrastare e indebolire ma di non confliggere con l’eterno nemico – l’Iran – con il quale si è incontrata pochi mesi fa mettendo fine ad un pluridecennale conflitto per procura. Ragione per cui la sua longa manu salafita oggi al potere in Siria, finora, la “sta toccando piano” cercando di legittimarsi come islamismo moderno e non fomentati jihadisti stile ISIS. I discorsi sulla unità della Umma (l’intera comunità musulmana) evocati a Damasco in questi giorni sembrerebbero voler porre fine al conflitto secolare tra sunniti e sciiti.
Infine le organizzazioni curde, un po’ come l’Autorità Nazionale Palestinese, sono le uniche ad avere un progetto non confessionale per il futuro della regione (la confederalità nel caso curdo, lo stato palestinese per l’Anp) ma affidano le loro speranze mettendosi nelle mani degli Stati Uniti. Una scelta dettata dalle necessità ma assai poco convincente. L’imperialismo, come noto, usa e getta spietatamente i suoi alleati congiunturali.
Il Medio Oriente si conferma come un mosaico complesso e lacerato dai confini e dalle divisioni imposte dal colonialismo. Le maggioranze etniche o religiose in un paese diventano minoranze in un altro. Anni fa in un incontro con un dirigente di Hezbollah, questi evocò una sorta di Conferenza di Westfalia – così come quella che costituì l’Europa moderna – per ridefinire il Medio Oriente, i suoi confini e i suoi destini. Ma solo uno spirito del tempo radicalmente diverso da quello oggi dominante nell’area poteva realizzare questa proposta.
In molti, anche giustamente, guardano all’insediamento effettivo della nuova amministrazione Usa in gennaio per capire quanto e come peserà sul Medio Oriente l’ordine delle priorità dell’imperialismo statunitense.
Le conseguenze sul movimento di solidarietà con la Palestina
Nei due mesi precedenti, la necessità di fare il punto sui cambiamenti che stavano intervenendo nell’area – una riflessione che avevamo registrato anche in movimenti potenti come quello britannico di solidarietà con la Palestina – è stata però condizionata ancora una volta dal “movimentismo” e dalla priorità assegnata alle mobilitazioni di piazza come unica forma di azione politica nel nostro paese sulla questione palestinese.
Su questo abbiamo assistito a equivoci e semplificazioni clamorose e talvolta del tutto strumentali. Qualcuno ha evocato l’idea che si volesse mettere “in secondo piano la questione palestinese”, o che le forze italiane volessero sovra determinare le associazioni palestinesi.
Inutile ribadire che non di questo si trattava, ma di mettere a fuoco le possibilità e l’efficacia dell’azione politica in Italia proprio a sostegno del diritto del popolo palestinese all’esistenza e alla resistenza.
Se per quasi un anno – anche grazie all’operazione del 7 ottobre – i palestinesi sono riusciti a rimettere il loro diritto all’autodeterminazione al centro dell’agenda politica internazionale ed a rappresentare la contraddizione principale, con la dichiarazione di guerra “sui sette fronti” in Medio Oriente è Israele ad essersi posta come la contraddizione principale dell’area, sia per le conseguenze della sua dottrina della guerra senza limiti, sia perché Israele e il suo progetto è diventata il laboratorio politico e il punto di convergenza delle destre e del suprematismo occidentale.
Questo cambiamento di scenario e di priorità non poteva non avere ripercussioni sulla funzione della solidarietà ai palestinesi nei paesi imperialisti, e l’Italia è uno di questi.
Provare ad esempio a rendere più efficace l’indebolimento della macchina di guerra e di propaganda israeliana nel nostro paese, di complicare la vita alle complicità di cui gode e continua a godere ad ogni livello, ci è sembrato – e continuiamo a ritenerlo tale – il modo migliore di esercitare solidarietà con i palestinesi, di contrastare il ruolo guerrafondaio di Israele contro i popoli e i paesi del Medio Oriente e di sintonizzare questa funzione con l’opposizione al crescente clima di guerra che ormai si respira a pieni polmoni nel nostro paese e in Occidente.
Per realizzare questo obiettivo le sole – e limitate – forze antimperialiste non sono sufficienti, sicuramente non nei paesi profondamente integrati nella catena imperialista come è il caso dell’Italia.
Questo tentativo di alzare il livello di discussione sui nuovi scenari nella regione mediorientale e contemporaneamente individuare una funzione di azione politica concreta del movimento di solidarietà nel nostro paese, ha prodotto però due reazioni diverse.
Da un lato ha verificato un imprevisto e diffuso interesse a misurarsi con modalità diverse nella mobilitazione sulla Palestina che ha portato alle riuscite assemblea nazionale del 9 novembre e manifestazione del 30 novembre.
Dall’altro uno schematismo che riproponeva – strumentalmente nel caso di soggettività italiane – la direzione delle associazioni palestinesi sul movimento di solidarietà in una fase in cui proprio fra queste si andavano manifestando divaricazioni crescenti che si sono palesate piuttosto ruvidamente nelle scorse settimane, sia in Italia che nei Territori Palestinesi stessi.
A complicare le cose è poi arrivato il rapidissimo cambiamento dello scenario siriano, che ha ulteriormente esacerbato le divisioni sia tra i palestinesi che nelle realtà italiane, e ne ha prodotte delle nuove nell’analisi sulla natura delle forze che hanno assunto il potere in Siria. Una sorta di tempesta perfetta che rischia concretamente di indebolire, imbrigliare, depotenziare il movimento di solidarietà con la Palestina che pure è venuto crescendo nei mesi scorsi.
Alla domanda sul che fare non esistono risposte semplici.
Sul piano dell’analisi su quanto accade e accadrà, l’unica cosa chiara è il ruolo centrale, minaccioso e destabilizzante di Israele come mandatario degli interessi degli imperialismi occidentali nell’area.
Per il resto, appunto, dovrà depositarsi la polvere in Siria e intanto prendere atto che l’Asse della Resistenza era ed è diventato più debole di quanto sembrava. In tale contesto la prospettiva per i palestinesi appare disperata, stretta tra le conseguenze del genocidio a Gaza e l’annessione de facto della Cisgiordania a Israele.
Per il movimento di solidarietà con i palestinesi in Italia è il momento di costruire e consolidare organismi permanenti di coordinamento delle iniziative e di discussione politica piuttosto che insistere sul “movimentismo” delle piazze e continuare ad alimentare divisioni e contrapposizioni.
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