Fatti
Il 21 agosto scorso una ragazza di 23 anni denuncia di aver subito un commento sessista da un operatore, mentre la stessa si preparava per una TAC.
È in corso un’indagine interna da parte del Policlinico Umberto I di Roma, per far luce su quanto accaduto.
Modi
La suddetta ragazza, poco dopo gli eventi, dal bagno dell’ospedale gira un video e lo posta sul suo account Tik Tok, in cui descrive in lacrime ciò che ha subito.
Dopo qualche giorno, il video è ripreso e ripostato da diversi giornali, che ne alimentano la viralità.
L’attenzione si sposta sulla presunta vittima, se ne saccheggiano i profili social e si sottolinea quanto parole e atteggiamenti pregressi stonino con quello che denuncia.
Ha sbagliato inoltre ad usare un social, ma avrebbe dovuto leggere bene il nome dell’operatore (anche se nel video dice di non ricordarlo, perché sotto shock) e seguire un iter riconosciuto come più consono, recandosi magari dai carabinieri, da un’associazione antiviolenza o chiamando il 1522.
Da qui, sono stati molti di più coloro che hanno attaccato, spesso in modo violento, la reazione della ragazza, i suoi modi e la sua stessa personalità, ricostruita attraverso la sua vita social, rispetto a coloro che hanno accolto la denuncia, nonostante le criticità.
Tra le due reazioni, ce n’è forse una terza: chiedersi perché?
Perché è successo ciò che è successo? Perché c’è stata quella reazione? Perché c’è stata una tale gestione mediatica da parte di attori e spettatori? Perché tali umori?
A chi giova il tutto?
Asimmetria e potere
Gli abusi sono perpetrati quasi sempre in situazioni asimmetriche e chiuse, perché protette da un sistema o categoria, di cui la vittima spesso non fa parte. Il padre che abusa della figlia, non lo farà in pubblico, così il medico, lo psicologo, il docente, il preside ecc si sentiranno al sicuro, se all’interno del sistema in cui occupano un ruolo di potere.
La difficoltà della vittima è che, provata e indebolita psicofisicamente dall’abuso subito, dovrebbe cercare aiuto presso organismi-organizzazioni super partes, che possano offrirle sostegno legale e psicologico. Spesso queste organizzazioni sono nate e cresciute fuori dai circuiti statali e si sono battute affinché fossero riconosciuti sempre più diritti e migliori condizioni, dallo stesso stato che all’inizio le osteggiava.
È possibile però che una vittima eccessivamente fragile agisca in maniera “scomposta” e “poco funzionale” all’abuso subito? Ciò ne annullerebbe in automatico la credibilità?
Oppure quest’ultima si perderebbe solo per una condotta di vita, che non rispetta i canoni della morale corrente?
A tal proposito mi ritorna in mente un esempio che lessi tempo fa e che tiro spesso in ballo: se ad un uomo seduto al bar viene sottratto il portafogli, è riconosciuto come vittima di un furto, se lo stesso uomo è ubriaco, drogato o in mutande, il reato non cambia; ma se una donna è vittima di un abuso o di una molestia sessuale, la situazione in cui viene collocata va a connotare la percezione dell’atto stesso, quasi sempre a discapito della credibilità.
Ed è un fatto che tale percezione (estendibile ad altri casi) sia figlia della storia e della geografia, e perciò modificabile, andando incontro ai diritti e al bene dei singoli e di conseguenza della collettività.
Ora, detto questo, possiamo convenire che esistono, in modo trasversale (e qui ci si potrebbe rifare al femminismo intersezionale) delle persone più esposte di altre agli abusi e con meno strumenti per gestirli? Certo!
Possiamo convenire che il riconoscimento di una tale fragilità e la tutela si siano raggiunti attraverso le lotte, quasi sempre contro lo status quo, e la massa che riesce a digerire i nuovi assetti, solo quando le spinte rivoluzionarie sono state masticate e metabolizzate dal sistema statale e comunitario? Certo!
Possiamo convenire che c’è una vulnerabilità intrinseca, attivata immediatamente da traumi e abusi, che lasciano impietriti e senza parole, ed è per questo che la reazione di chi subisce non sembrerà mai normale a chi non ha manco lontanamente idea cosa significhi provare certe cose? E conveniamo per questo che l’immediatezza e la lucidità di pensiero e azione sono quasi impossibili in simili situazioni? Certo!
Possiamo convenire che solo accogliendo la crescente complessità dell’umano e preservandone l’umanità, potremmo evolverci come comunità? Certo!
Possiamo convenire che non si possono scindere i sistemi di cura, tutela ed educazione da quelli economici che li nutrono e dirigono? Ma certo!
Possiamo convenire che troppo spesso si alimentano contrasti (dove non sussistono, visto che si condividono stesse condizioni di classe) per aumentare ulteriormente il caos, spostando l’attenzione dalle reali cause del malessere, e cercando futili soddisfazioni per reprimere le proprie reali frustrazioni? Certo!
Pur convenendo su tutto, è possibile essere al riparo da false denunce? No!
Ma capite che ciò vale per qualsiasi reato, no?
E mica basta per lasciarsi prendere da scorciatoie e semplificazioni?
Facciamo i seri!
Abusi e traumi
C’è chi ha parlato di gradualità del trauma, appoggiato da professionisti del settore, dimenticando forse però che, se si vuol parlare di abusi più o meno gravi, volendo fare una distinzione e stilare una classifica, non sappiamo quante volte tali abusi “minori” siano stati ripetuti e a chi siano stati rivolti.
Cioè qual è il vissuto e la personalità della persona che subisce.
Il che va a determinare la modalità di coping interiore ed ambientale-comunitaria, a seconda degli strumenti realmente integrati. Qua c’entrano solo in parte età, titoli di studio, professioni, ecc…
Inoltre se legalmente, a seconda della fase storica ovviamente (basti pensare al delitto d’onore), si definisce una gravità graduata dei reati e in base a questa la pena da scontare, ciò non ha niente a che vedere col reale impatto che questi hanno sulla vita della vittima.
Anche se, col tempo, si è definito un danno morale e psicologico, è molto difficile quantificare determinati danni, che poi molto spesso si manifesteranno in seguito e in modo difficilmente prevedibile in tutta la loro complessità.
Social e società
Gli studi su quanto le ultime tecnologie abbiano alterato e stiano alterando i nostri sistemi nervosi, le interazioni, le percezioni e le nostre emozioni non si contano. Potremmo perderci tra libri e riviste, tanta la produzione.
Ma noi, da buoni clinici e rivoluzionari, dovremmo indagare e ricercare il senso.
Ritorniamo alla ragazza.
Perché in quel momento di fragilità ha usato un social per una denuncia?
Mica è la prima a farlo e mica succede da poco? Certo che no.
I social sono pieni di gente che sbraita per i motivi più disparati. Poi ci sono quelli che curano ogni male in tempi brevissimi, dalla schiena ai disturbi border, basta seguire le 10 cose da fare e da non fare. E qui, cari amici lettori, mi ritornano alla mente due esperienze italianissime, impresse nel nostro DNA comunitario:
Wanna Marchi e il Gabibbo!
Da un lato c’è un’imbonitrice, affiancata poi da un mago, che truffa persone fragili vendendo illusioni (cure per il malocchio, creme e diete dimagranti ecc), senza nessun intervento da parte dello stato, che avrebbe dovuto da subito tutelare i suoi cittadini, specie quelli più “bisognosi”, impedendo a veri e propri criminali di accumulare guadagni stratosferici; dall’altro col Gabibbo, Mi manda rai3 e poi Le iene, trasmissioni che si sostituiscono allo Stato, che non risponde più alle denunce e nei fatti delega…
Il social visto come il male assoluto non è altro che lo specchio della nuova realtà.
Uno specchio certo senza più cornice e in cui si viene inghiottiti, spesso vittime della propria stessa immagine.
Gli imbonitori si sono moltiplicati, dai personal trainer fino ai medici e agli psicologi, ce n’è per tutti, visto che il canale è gratuito (certo si paga con i propri dati, ma la percezione è tale) e i sistemi di trasmissione alla portata di ogni possessore di smartphone. La difficoltà dei controlli e della gestione legale è aumentata e ormai diventa quasi indistinguibile la realtà da ciò che è riprodotto dall’IA.
Quindi così come fino alla metà degli anni 2000, l’abuso collettivo e la truffa erano fuori dal controllo dello stato italiano, ora sono fuori dal controllo degli stati mondiali. Tutti in ossequio a nostra santità, la merce, che di tanto in tanto (o chi per lei), per scrupolo, fa oscurare qualche offesa o qualche parolaccia. Bisogna pur mantenere un certo decoro, no? Dopo aver bastonato e sgozzato il bestiame, è bene farsi una doccia e mettersi il vestito buono, prima di sedersi a tavola, no?
Quindi in questo caos, in cui dominano la merce e lo sfruttamento spettacolarizzati, dove il controllo è sempre meno presente, basta che ci sia guadagno, non vi pare che siano aumentati i segni di fragilità e o malessere? Hanno semplicemente una maggiore esposizione? Le statistiche non mi pare dicano questo.
E perché lo stato che dovrebbe tutelarci non intercetta questi segnali e non interviene tutelandoci?
Possiamo convenire che i mezzi che stiamo utilizzando per dare forma non solo ai nostri pensieri, ma alla nostra stessa persona, ci influenzano secondo le loro leggi di visibilità (eccesso/illusione/godimento istantaneo=maggiori follower=maggiore soddisfazione – guadagni) e che, se non siamo lucidi, mantenendo un contatto umano reale con la nostra storia precedente, individuale e comunitaria, in un’ottica critica integrata, potremmo finire risucchiati nell’eterno spettacolo, dove tutto è eterno, ma niente sembra necessario e sempre di più reale?
“Il personale è politico”
È ancora valido lo slogan di Carol Hanisch? O meglio, come lo potremmo validare oggi e alla luce della vicenda da cui siamo partiti?
Con i social si mostra pubblicamente una parte del privato. Più o meno consapevolmente, si sceglie cosa mostrare e cosa no.
La prima domanda sarebbe: a quale scopo?
In quale proporzione poi lo scopo, che ci muove le dita sul telefono, non finisce per influenzare anche la persona che costruiamo fuori dallo schermo e che diventa asservita a quello scopo, anche in tempi e spazi diversi da quelli ad esso dedicati?
Coloro che condividono la loro intimità in dosi sempre maggiori, quale confine pongono tra il social e la realtà? Dove finisce l’uno e comincia l’altra? Di chi fidarsi?
E come è possibile definire delle linee da fuori, quando dentro si è spesso in balia di milioni di dati, che si intrecciano ai vissuti, più o meno virtuali e che necessitano di una riorganizzazione integrata e di senso? Tempo!
Tempo, che per avere, dobbiamo tirarci fuori da un vortice di fruizione alimentato da un’eterna connessione, sempre rivolta fuori.
La ragazza in preda all’emotività, ha scelto il mezzo più veloce, che forse in parte le garantiva una certa distanza dal contatto diretto (non era costretta a guardare nessuno in quel momento, anche se rimarrà poi visibile a milioni di persone), ma nei fatti l’ha poi esposta alla reazione di milioni di utenti, eternizzando le sue lacrime “scomposte”. Ripeto, non è la prima volta che si predilige il social e non sarà l’ultima.
Forse la fiducia nasce quando si percepisce che si può essere accolti, almeno da una parte della comunità in cui si vive, riconosciuti per quel che si porta, senza pregiudizi di sorta, e che questa parte ci possa sostenere, in presenza e attivamente, quando, denunciando qualsiasi forma di abuso, stiamo facendo saltare meccanismi familiari e sociali, vecchi di secoli. Ed intraprendere un sentiero del genere, al di là del grado di abuso, ci rende impauriti, angosciati, soli, stanchi e vulnerabili.
Ma è poi nel coraggio della sincerità e del riscatto che si scoprono i veri amici, gli affini ad amare, tra i molti che sprofondano in posizioni di comodo. E i peggiori sono quelli che con “ai miei tempi” e “i valori di una volta” sperano solo di perpetuare le subordinazioni, che gli hanno permesso di vivere sfruttando il tempo e la vita degli altri, con quel piglio malinconico di chi si bea di quando tutto era chiaro, pulito e in ordine.
Pulito e ordinato, certo non da loro.
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