E’ abbastanza difficile – ne converrete – informare e spiegare l’evoluzione del mondo con un piccolo giornale tenuto su da forze molto limitate. Diventa perciò a volte utile, per sintetizzare al massimo quel che vogliamo mettere in luce, destrutturare analisi prodotte dall’informazione mainstream che fanno i conti con la brutale realtà della crisi occidentale in modo molto contorto, ma non riescono a cogliere – o cercano di nascondere – i nodi strutturali che producono i risultati negativi sotto i loro occhi.
Un nostro frequente bersaglio polemico è perciò Federico Fubini, uno dei molti vicedirettori del Corriere della Sera, con competenze economiche di stretta osservanza neoliberista ma spesso in uscita avventurosa verso materie che maneggia decisamente peggio.
Un caso clamoroso di inciampo nelle contraddizioni tra teoria liberale e pratiche imperiali lo ha quasi costretto, all’inizio del nuovo mandato di Trump, a dichiararsi improvvisamente – per disperazione – “antiamericano”, travolto dall’intreccio inestricabile di dazi, debito pubblico, stablecoin e minacce di ritiro dell’”ombrello atomico”.
Stavolta la sua newsletter è incentrata sulla “quasi recessione” in cui è incagliata l’economia italiana, contraddicendo la linea fin qui seguita dal Corriere, di sostanziale benedizione del governo Meloni nella misura in cui è obbediente fin nei dettagli minimi all’austerità imposta dall’Unione Europea.
E’ noto che il mantra governativo è “l’economia va bene grazie a noi”, e dunque rivelare che abbiamo invece sfiorato la recessione tecnica (due trimestri consecutivi con Pil negativo) significa smontare un pilastro chiave della “narrazione” meloniana e mettere perciò in dubbio il sostegno futuro.
Vero è che per notarlo occorre guardare con la lente di ingrandimento, perché i dati ufficiali segnalano un sostanziale “tasso zero” nella crescita e il segno meno vien fuori solo tenendo conto dell’inflazione. In parole semplici: l’economia negli ultimi sei mesi è rimasta ferma (“uno scostamento dello 0,000009%, un decimillesimo”), ma siccome i prezzi sono aumentati in misura maggiore, di fatto il valore reale della produzione totale è leggermente inferiore (meno merci prodotte, ma a prezzi più alti).
Nulla di veramente grave, certo. Ma avviene in un contesto in cui la popolazione invecchia e dunque diminuisce, l’industria viene smantellata e/o svenduta (ultimo caso importante la cessione di Iveco all’indiana Tata, che come al solito incamererà tecnologia e know how per poi chiudere gli stabilimenti), e la concorrenza – soprattutto cinese – aumenta.
Quello che giustamente angustia Fubini è vedere che il dibattito politico – nel governo e nella sedicente opposizione parlamentare – è totalmente concentrato su paccottiglia: “Da noi l’agenda politica è dominata da polemiche sulla riforma della magistratura e sugli audio della moglie dell’ex ministro Gennaro Sangiuliano e come si è decisa eventuale ammenda al programma tivù che li ha trasmessi”.
Come si fa a non essere d’accordo? Soprattutto quando il paragone – è sempre l’occidentalissimo Fubini a parlare – va fatto con la Cina: “ieri sera il South China Morning Post puntava forte sulla scoperta di un gruppo di ricerca dell’Università di Pechino che potrebbe portare a produrre dei microchip per l’intelligenza artificiale mille volte più potenti di quelli dell’americana Nvidia. Altro punto in alto nell’agenda del quotidiano di Hong Kong: si lavora a data center da calare in mare per ridurre le loro emissioni e garantire il raffreddamento senza consumare acqua dolce dalle falde”.
Inevitabile la conclusione: “quale delle due classi dirigenti sembra più concentrata sul futuro del proprio Paese? E su quale dei due Paesi scommettereste in ottica futura, se guardaste da fuori?”
Non sperate che “il vice” liberal-liberista sia stato folgorato sulla via di Pechino; premette che “scambio subito la libertà italiana di parlare (anche) di sciocchezze all’infinito con la temibile serietà cinese”, però il dubbio che non si tratti di una crisi contingente, superabile, comincia a serpeggiare, anche nel linguaggio (la “serietà cinese” suscita qualche invidia, c’è poco da fare…).
Anche il paragone con le altre “cicale” europee (Spagna e Grecia) è impietoso: “stanno crescendo da quattro a sei volte più di noi, malgrado deficit pubblici più bassi”).
Il dubbio prende infine forma compiuta: “se la crisi è di modello – come quella della Germania – allora bisogna chiedersi quale modello abbia in mente chi governa per portare il Paese in un’altra direzione. La stessa domanda posta alle classi di governo in Cina o negli Stati Uniti avrebbe risposte chiare, benché magari non condivise. Ma l’Italia? Intanto, perché tutto questo avvenga occorrerebbe che chi governo accetti che c’è una crisi e che essa sia di modello: per ora non è così”.
Due ammissioni chiave: a) la crisi è di “modello”, perché anche la locomotiva tedesca – che ha imposto il suo mercantilismo export oriented a tutta Europa – sta nelle stesse condizioni; b) il governo Meloni non se ne è neanche accorto e si barcamena tirando avanti alla giornata, senza un’idea di Paese verso cui indirizzare gli sforzi.
Il povero Fubini è accecato dalle teorie liberiste e vede perciò in azione, addirittura come protagonista, un “capitalismo oligarchico di Stato. Pochi uomini d’affari privati godono di un rapporto privilegiato con la politica, che per loro sembra disposta a fare molto e magari forzare qualche regola: privatizzazioni di banche con vincitori graditi, decreto sul mercato dei capitali che privilegiano la posizione di alcuni soggetti, grandi appalti assegnati ad alcune imprese senza rinnovare le gare d’appalto o al contrario – se siete soggetti sgraditi – veri e propri veti extralegali alle vostre operazioni di mercato. Contro qualunque regola europea.”
Diagnosi efficace, ancorché esercitata su un punto sopravvalutato, ma prescrizioni che aggravano la malattia. Il pensiero neoliberista è fatto così: davanti ad una “cura” che non funziona e che produce malessere, consiglia di aumentare la dose dello stesso medicinale (dimenticando che ogni farmaco è anche un veleno, e il dosaggio è questione delicata): ossia rafforzare l’obbedienza alle “regole europee”.
Mentre invece “il governo continua ad impegnarsi a privatizzare in futuro, ma ad allargare la sua presenza nelle imprese sul mercato: da ultimo anche il settore bancario, la gestione del risparmio e indirettamente il settore assicurativo” (frecciata polemica sulle recenti mosse Montepaschi-Mediobanca ed altre).
Il tutto riassunto poi nell’antico anatema: questo è “più Stato nel mercato”. Penitenziagite!
E’ veramente fantastico vedere come, in una ideologia “chiusa”, neanche la smentita opposta dalla realtà riesca a fare breccia. E’ chiaro che le forze politiche della maggioranza stanno agendo nel settore bancario-assicurativo per costruire un proprio “canale finanziario di riferimento”, utilizzando le residue golden share ancora esistenti (“abbiamo una banca!”, gridava qualcun altro prima di dedicarsi ad obiettivi minori, come i profumi al duty free), ma per quanto ignobile questo sia è assolutamente marginale rispetto alla crisi in cui il Paese è incagliato. Se anche avessero moderato gli appetiti, non sarebbe cambiato granché nel “modello”.
Se la evidente crisi italiana è di “sistema” – o di “modello” – ed il campione di quel sistema (la Germania) è altrettanto in crisi, logica vorrebbe che se ne traesse una conclusione rigorosa: è il modello (“ordoliberale”) che non funziona, e dunque è questo che va cambiato. E di questo bisognerebbe discutere…
Oltretutto c’è l’esempio cinese, che sempre Fubini ha dovuto portare: “la quota di categorie di beni made in Italy che vengono prodotti anche in Cina sta rapidamente salendo. Le imprese nella Repubblica popolare coprono a costi minori e non di rado a contenuto tecnologico uguale o maggiore ormai la gran parte delle categorie prodotto che caratterizzano il nostro Paese. Non è difficile prevedere che continuerà così”.
Se dalla Cina provengono ormai prodotti competitivi con i “nostri” per qualità oltre che per prezzo (ma quest’ultimo incide sempre meno, visto che i loro salari stanno raggiungendo quelli italiani a passi da gigante) è proprio perché laggiù c’è davvero “più Stato nel mercato” (non “più politici da sbarco che pasticciano con le quote azionarie delle partecipate”).
Ovvero maggiore attenzione – e spesa, che poi ritorna come guadagni moltiplicati – per l’istruzione, la ricerca, le infrastrutture di base e di alta qualità: in generale molta attenzione alla definizione di obbiettivi e alle modalità per raggiungerli.
In parole antiche e modernissime: pianificazione e programmazione. Con grande libertà alle imprese pubbliche e private su come organizzarsi per raggiungere quegli obiettivi definiti politicamente, in modo che non confliggano con gli scopi anche extraeconomici – “di sistema” – di quel modello sociale.
Per chiudere con una battuta: se vuoi eliminare la povertà non puoi lasciare campo libero alle imprese private nell’eterna attesa che “qualche briciola cada dal tavolo”, non puoi “lasciar fare al mercato”. Perché quella massima libertà produce una concentrazione mai vista della ricchezza in poche mani e masse sterminate di disperati senza alcuna libertà, come si vede oggi in tutto il capitalismo euro-atlantico.
Insomma: bisogna scegliere tra “libertà del mercato” e “libertà dal bisogno“, ottenendo di conseguenza risultati opposti. Perché solo chi non è azzoppato dal bisogno può (è una possibilità, non una garanzia) essere davvero libero.
Una lezione che anche l’altro ex grande giornale mainstream, Repubblica, ha capito al contrario, come dimostra il titolo qui sotto…

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa

Manlio Padovan
Credo: in quanti siete in redazione di Contropiano?
Grazie per la riposta.
Redazione Contropiano
“Stabili” in pochi davvero, with a little help from our friends…
Matteo
Articolo pregevole, come sempre.
Ma Repubblica invece quand’è che chiuderà i battenti definitivamente? Voglio dire: io non ho mai amato quel giornale neppure quando ci tromboneggiava un tale Scalfari, ma adesso è un’agonia vera e propria.