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L’omicidio Pinelli

Milano, 15 dicembre 1969. Le lancette strisciano verso mezzanotte. Questura di via Fatebenefratelli, quarto piano: luci accese, una finestra spalancata. Un uomo è volato giù. Un partigiano. Un anarchico. Giuseppe Pinelli.

Il giorno successivo, il Corriere della Sera, bibbia della borghesia milanese, pubblica la versione ufficiale, servita calda e pronta per essere digerita: il commissario Luigi Calabresi ha appena sospeso l’interrogatorio. Nella stanza restano tre agenti di polizia e un ufficiale dei carabinieri. All’improvviso, si legge, Pinelli «compie un balzo felino verso la finestra e si lancia nel vuoto».

Un “balzo felino”. L’espressione è del questore Marcello Guida, ex direttore del confino fascista di Ventotene, graziato dopo la guerra.

Ma quella ricostruzione non convince nessuno, tranne chi vuole crederci. Licia Pinelli, la vedova, non teme di dirla nuda e cruda: Giuseppe è crollato dopo un colpo secco alla faccia, preso nella colluttazione con i poliziotti. Lo danno per morto. Lo sollevano, lo spingono oltre il davanzale, poi gridano al “suicidio”.

27 ottobre 1975. Il giudice Gerardo D’Ambrosio archivia. Non suicidio. Non omicidio. “Malore attivo.” Una nuova categoria penale, pronunciata per la prima e ultima volta nella storia della giurisprudenza: una vertigine che ti prende, ti fa girare, ti lancia nel vuoto come un acrobata fallito.

La perla del magistrato: «Pinelli accende una sigaretta, l’aria è pesante, apre la finestra per respirare, viene colto da improvvisa vertigine, compie un atto di difesa in direzione sbagliata: il corpo ruota e precipita nel vuoto.» Così la Repubblica borghese si lava la coscienza con l’acqua di colonia.

Risultato? Tutti assolti. Tutti promossi. Calabresi, Allegra, Panessa, Lo Grano, Mucilli: tutti a casa con la divisa stirata e una pacca sulla spalla. «Bravi ragazzi, avanti il prossimo.» Chiuso il cerchio.

Giuseppe Pinelli aveva quarantun anni. Frenatore allo scalo merci di Porta Garibaldi, staffetta partigiana a quindici, anarchico fino al midollo nei circoli di Ponte della Ghisolfa e via Scaldasole: volantini, collette, solidarietà coi compagni in galera.

Ed è proprio lì, in via Scaldasole, la sera del 12 dicembre 1969, subito dopo la strage, che arriva il commissario Calabresi con l’ordine in tasca: «Vieni in questura, Pinelli, due chiacchiere e torni a casa.» Gli permette perfino di andarci col motorino. Sappiamo com’è andata. Non tornerà più.

Giuseppe Pinelli resta nella memoria di chi non dimentica: la diciottesima vittima della strage di piazza Fontana.

* da Facebook

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