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No, i neutrini non sono più veloci della luce

 

NO, I NEUTRINI NON SONO PIU’ VELOCI DELLA LUCE

 

Nel numero di novembre 2011 di questo giornale abbiamo parlato dell’esperimento OPERA effettuato al CERN di Ginevra, dove lo scorso settembre alcuni risultati avevano portato a ipotizzare che i neutrini viaggiassero a velocità maggiori di quella della luce.

A fine marzo 2012 si è invece diffusa la smentita: quelle misure – che mettevano in discussione la teoria della relatività di Einstein – erano dovute ad un’anomalia nel funzionamento degli apparati utilizzati per misurare la velocità dei neutrini. Si sarebbe trattato di un problema di calibrazione dell’orologio di riferimento per calcolare il tempo di viaggio della particella, sommato ad un errore di connessione nel cavo di fibra ottica tra un rilevatore Gps ed un computer usato per calcolare il tempo in cui i neutrini furono sparati dall’LHC a Ginevra al laboratorio dell’INFN sotto il Gran Sasso, distante oltre 700 km (il famoso “tunnel tra il Gran Sasso e Ginevra” dello stupido comunicato della ex-ministra Gelmini).

 

Due diversi esperimenti indipendenti hanno confutano il risultato di OPERA. Il primo si chiama ICARUS ed è diretto dal Nobel Carlo Rubbia nei laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN. Il secondo è il LVD (Large Volume Detector), coordinato da Antonino Zichichi. Le misure di entrambi confermano che i neutrini viaggiano a velocità vicina ma mai superiore a quella della luce.

 

Questo “dietrofront” scientifico ha avuto significative conseguenze sul gruppo di ricercatori di OPERA: dapprima alcuni membri della collaborazione hanno chiesto le dimissioni del coordinatore dell’esperimento, Antonio Ereditato, poi si è creata una spaccatura all’interno del gruppo che ha indotto lo stesso Ereditato a dimettersi, lo scorso 30 marzo.

Ereditato ha inviato subito alla rivista Le Scienze una lettera nella quale tra l’altro sostiene:

«Quando a settembre dello scorso anno riportammo la misura della “anomalia” sulla velocità dei neutrini alla comunità scientifica, avevamo chiaro che il risultato avrebbe destato scalpore tra i colleghi, ma anche tra il grande pubblico, per le ovvie implicazioni e il grande impatto mediatico dell’argomento. Anche per questo motivo il nostro approccio fu totalmente in linea con la metodologia scientifica, che impone la comunicazione di risultati, anche particolarmente imprevisti o “scomodi”, e la conseguente richiesta di scrutinio da parte della comunità degli scienziati. Mai né io né nessuno dei miei colleghi di OPERA parlò di scoperta o di risultato acquisito. Al contrario, dichiarammo esplicitamente, fino alla noia, che il nostro compito primario, da quel momento in poi, sarebbe stato non già quello di consolidare il risultato, ma quello di dimostrare l’esistenza di un possibile effetto fisico, strumentale o metodologico “convenzionale” che potesse permettere di interpretarlo.
Vari mesi dopo, ciò è accaduto. Com’è noto, noi stessi abbiamo individuato e comunicato l’esistenza due sottili effetti strumentali che potevano contribuire totalmente o in parte a spiegare l’anomalia. Si è parlato di “errori”, “sbagli”, “flop”, ma in realtà si trattava della normale procedura scientifica propria di un lavoro sperimentale. Tra le molte potenziali cause di errore qualcosa era sfuggito agli sperimentatori, manifestazione questa della non infallibilità dello scienziato e delle sue ineludibili limitazioni. Ma, come lei sa bene, tutto ciò rientra naturalmente nei canoni del processo scientifico: la scienza avanza in una terra incognita spesso con due passi avanti e uno indietro, correggendosi e imparando dagli errori, del tutto fisiologici nel suo progredire complessivo. Non a caso l’accezione della parola “errore” è del tutto diversa nel metodo scientifico da quella che ha nel linguaggio comune.

Tornando alla comunicazione, va detto che sia al tempo del nostro primo seminario pubblico, sia recentemente quando abbiamo comunicato (prontamente) i nostri dubbi, si è assistito, a fronte di messaggi corretti dal punto di vista della divulgazione scientifica, anche a spettacolarizzazioni eccessive e approssimazioni non sempre giustificate.

(…) Come conseguenza dell’enorme interesse mediatico, [ci siamo] trovati di fronte a un’anomala e per certi versi irrituale pressione sulla Collaborazione OPERA (…) Le tensioni esterne si trasmettono poi rapidamente a un sistema sociale di oltre 150 persone. La naturale dialettica interna ne può soffrire, e un possibile risultato, pericoloso, è che si possano perdere di vista gli obiettivi scientifici (…) Dal mio punto di vista ho fatto il possibile per ammortizzare le tensioni interne nella mia qualità di coordinatore del progetto. Tuttavia, quando ho verificato che esse avevano superato il livello di guardia, e si erano materializzate in critiche esplicite, ho ritenuto opportuno offrire le mie dimissioni nell’ottica di favorire un nuovo e più diffuso consenso. Tengo solo a precisare che il mio gesto non è da considerare come una debolezza o un ritirarsi di fronte alle difficoltà. La collaborazione OPERA ha sempre agito nel pieno rispetto del rigore scientifico, sia nell’annunciare risultati, sia nel produrne spiegazioni.
Confido infine che una volta tornata la calma tutti possano concentrarsi efficientemente sul proprio lavoro: gli scienziati, i professionisti della comunicazione, le agenzie di finanziamento e i vari addetti ai lavori. (…)»

 

Secondo il professor Rossi Albertini dell’Istituto di struttura della materia (ISM) del CNR, le dimissioni di Ereditato sono “un gesto affrettato ma segno di grande responsabilità nei confronti della comunità scientifica” in quanto Ereditato “ha scelto di farsi carico di una comunicazione che sicuramente fu troppo affrettata (…) Ridurre questo lavoro solo ad un errore, lo trovo ingeneroso verso dei colleghi che hanno fatto, e continuano a fare, un lavoro straordinario”.

Due aspetti sono clamorosamente resi evidenti da questa vicenda. Da un lato abbiamo questo “gigantismo” degli esperimenti scientifici in alcuni settori (la cosiddetta “big science”), che è diventato “obbligatorio” per trovare interesse e fondi per la ricerca di base, e che è strutturato in potenti gruppi di ricerca in forte competizione tra di loro, nonché al loro stesso interno. Dall’altro lato abbiamo la cosiddetta “opinione pubblica”, ovvero quel sistema politico-mediatico che costringe anche gli scienziati ad esporsi con dichiarazioni “ad effetto”, sempre allo scopo di sopravvivere, gareggiando sfrenatamente con altri gruppi, mettendosi in mostra per procacciarsi attenzione e fondi.

 

Ma l’autopromozione continua, la competizione e la spettacolarizzazione non giovano al lavoro scientifico… Il lavoro scientifico ha bisogno anche e soprattutto di un contesto collaborativo; il ricatto costante da parte dei media e di chi elargisce i finanziamenti può solamente nuocere all’avanzamento delle conoscenze. E, soprattutto, attenzione e stimoli al lavoro scientifico dovrebbero venire piuttosto da un corretto meccanismo di trasmissione delle conoscenze, a partire dalla scuola: ma come possiamo pensare che la ricerca scientifica faccia seri passi in avanti mentre nella nostra società la scolarizzazione diminuisce ed una intera generazione viene espulsa dal comparto della conoscenza? Interi filoni di ricerca sono destinati a scomparire a causa delle politiche di tagli e restrizioni operate in questi anni da una classe dirigente che mette a repentaglio il nostro futuro.

 

Un’altra lezione che si può trarre da questa storia riguarda le posizioni antiscientifiche della religione.

 

Ricordiamo che sul quotidiano pretino “L’Avvenire” il 24 settembre scorso si gridava di giubilo per la presunta “scoperta” sui neutrini: << Un colpo alla relatività ma soprattutto allo scientismo (…) Viviamo nell’epoca in cui la scienza ha preso il posto della magia (…) La scienza dei nostri giorni ha la “S” maiuscola e ci regala certezze assolute, sulle quali si sono incardinati interi sistemi di vita. Il marxismo era la “scienza” ultima dell’organizzazione sociale, e ha dato quel che s’è visto in tante parti del mondo, in tanti decenni di lacrime. (…) La teoria di Einstein è, appunto, una “teoria”: ovvero un insieme organizzato fondato su ipotesi. Ma (…) è tanto entrato nell’eloquio comune (…) da trasferirsi ipso facto nei ranghi delle certezze, come per i marxisti fu l’organizzazione marxiana della società e per i liberisti è il mostro sacro dell’economia di mercato (…) Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto. Soprattutto alle certezze preconfezionate offerte col sigillo dell’autorità». La presunta scoperta dei “neutrini più veloci della luce” veniva cioè strumentalizzata per un attacco violentissimo e del tutto pretestuoso non solo contro gli scienziati, non solo contro chi non crede in dio, ma – guarda guarda – anche, tanto per cambiare, contro il marxismo, bersaglio costante delle invettive dei preti. Già allora aveva risposto Carlo Bernardini: «Non credevo ai miei occhi leggendo l’articolo di Servadio su l’Avvenire. Siamo nel 2011 e qualcuno tira fuori stupidaggini epistemologiche di questa dimensione (…) Certo, rinunciare a un fantomatico protettore come dio pesa a molti illusionisti ancora oggi; ma si rassegnino: il dubbio è nostro e non lo molleremo per un vantaggio inesistente. Servadio farebbe meglio a evitare i bolliti misti improponibili come quelli tra marxismo, economia, fisica, cosmologia e relatività. Pensi a studiare, piuttosto».

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