La prima bomba atomica non scoppiò su Hiroshima il 6 agosto del 1945. Fu preceduta dal Trinity Test, che avvenne il 16 luglio nel deserto del New Mexico in USA, in località Alamogordo.
Nessuno era sicuro che l’ordigno avrebbe davvero funzionato; era una bomba ad implosione, simile a quella che fu sganciata poi il 9 agosto su Nagasaki.
Men che meno si poteva essere sicuri della potenza esplosiva che avrebbe sprigionato. Enrico Fermi, il più grande scienziato nucleare italiano e forse mondiale, era lì, a pochi chilometri, ad assistere all’esperimento.
Indossava come tutti degli speciali occhiali scuri, per non essere accecato. L’esperimento fu un terribile, pieno successo, oltre ogni aspettativa. L’esplosione liberò circa 20 kiloTon di energia, pari cioè a 20.000 tonnellate di tritolo. Solo che bastavano circa 8 chili di Plutonio, una sferetta di 10 cm di diametro, per sprigionare tutta quella forza distruttiva.
Enrico Fermi fece in quell’occasione uno dei suoi “esperimenti” semplicissimi: portò con sé delle striscioline di carta di diversa lunghezza e, quando dopo il lampo accecante arrivò l’onda d’urto, dallo spostamento delle striscioline stimò la potenza della bomba, ben prima dei sofisticati strumenti in dotazione ai tecnici del progetto Manhattan.
E come sempre ci azzeccò: Fermi era un genio, e come tutti i geni risolveva problemi complessi in modo semplice.
Il successo del test ebbe immediate conseguenze. Il Presidente USA, Harry Truman, saputa la notizia, non esitò a comunicarla a Churchill e Stalin, riuniti con lui a Potsdam per dettare l’ultimatum al Giappone.
Stalin reagì con fair play, dicendo “Bene! Fatene buon uso con il Giappone!”. Salvo poi, rientrato a Mosca, ordinare ai propri scienziati di mettersi in pari il più presto possibile.
Il testo finale dell’ultimatum, avendo gli alleati la bomba atomica, venne inasprito: oltre a richiedere la resa incondizionata del Giappone, “pena la completa distruzione”, nulla garantiva sul punto che ai giapponesi stava più a cuore: la preservazione dell’istituto imperiale e dell’imperatore. Nulla garantiva che Hiro Hito non facesse la stessa fine di Mussolini e Hitler.
Il Giappone non reagì bene all’ultimatum, che secondo l’usanza orientale era intollerabile anche nella forma, oltre che nella sostanza. Risposero Mokusatsu, ovvero “Lo uccideremo col silenzio”. È una parola giapponese che sta per ‘ignorare’ o ‘trattare con tacito disprezzo’. È composta da due kanji: 黙 (moku, letteralmente silenzio) e 殺 (satsu, letteralmente uccidere).
A quel punto gli USA iniziarono i preparativi, trasportando le bombe in oriente, assemblandole, predisponendo gli aerei che le avrebbero sganciate.
Nel frattempo, fra alcuni degli scienziati del progetto Manhattan, che avevano visto cosa poteva fare una bomba atomica, serpeggiò lo sgomento. Due documenti vennero predisposti in fretta e furia e inviati a Truman: il Rapporto Frank e la Petizione Szilard, dal nome dei due scienziati primi firmatari.
Entrambi proponevano un passo intermedio: convocare degli osservatori giapponesi ad assistere ad una esplosione “dimostrativa” della bomba, da effettuarsi nelle zone desertiche settentrionali del Giappone, nell’isola di Hokkaido. In tal modo, constatata l’enorme forza distruttiva dell’atomica, forse i giapponesi si sarebbero arresi.
Il Presidente Truman era in carica da tre mesi. Chiese consiglio ai suoi consulenti dell’Advisory Committee. I quali a loro volta chiesero il parere di tre illustri scienziati nucleari, capeggiati dallo stesso Enrico Fermi.
Fermi disse: “Non credo che i giapponesi si impressionerebbero troppo per quattro fuochi artificiali nel deserto”. La lapidaria frase di Fermi fu quella che convinse Truman, segnando in quel modo il destino di centinaia di migliaia di civili innocenti.
Il 6 agosto fu bombardata Hiroshima, il 9 agosto Nagasaki. Non furono “quattro fuochi artificiali”: morirono circa 250.000 persone, quasi tutti civili innocenti: uomini, donne, vecchi, bambini. Morti istantanee, per i più fortunati. Morti orribili nei giorni, settimane, anni che seguirono, a causa delle ustioni e delle radiazioni.
Il Giappone, a quel punto, si arrese. Era iniziata l’era atomica.
Enrico Fermi fu, lo ripetiamo, forse il più grande, come scienziato. Ma quelle sue parole peseranno per sempre sul giudizio che si potrà dare non sullo scienziato, ma sull’uomo.
L’illusione di una scienza “neutrale”, al di sopra delle leggi etiche e morali, tramontò proprio in quei giorni.
Lo stesso Fermi se ne rese conto, rifiutandosi di partecipare ad altri progetti bellici, come lo sviluppo della bomba H (all’idrogeno). Morì prematuramente nel 1954, a soli 53 anni.
Dal nostro piccolo, infimo ruolo di scienziati nucleari del XXI secolo, ci siamo limitati a raccontare i fatti. Non osiamo, per rispetto e inadeguatezza totale al ruolo, ergerci a giudici morali: ognuno, dai fatti, può trarre le proprie conclusioni.
* Scienziato e docente al Politecnico di Torino, è entrato nel 2015 nella short list (10-15 nomi) dei candidati al Nobel per la Fisica
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Carlo Comucci
Non è stata certo la battuta di Fermi a convincere gli USA a non lanciare la bomba in una zona desertica del Giappone. C’erano tutto il governo, le forze armate, la voglia di concludere un conflitto che sembrava interminabile, la determinazione di Churchill, la volontà di imporre all’URSS la superiorità americana che spinsero verso la tragica decisione.
Massimo Zucchetti
@Carlo Comucci
Vero. Tuttavia la sua frase, da scienziato più influente fra gli “Advisors” e in quel momento ritenuto praticamente infallibile, fu un piccolo granellò di sabbia che fece pendere la bilancia da una certa parte. Certamente, avesse adottato un atteggiamento opposto, il suo sarebbe stato l’unico nome realmente influente a sottoscrivere quell’appello (gli altri erano figure viste come marginali) e, forse, era il momento giusto per farlo. Fermi poi si oppose alla bomba H, perché immorale. Invece, un anno prima, sperimentare direttamente sulla popolazione giapponese la bomba A era morale.