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Il caso Titagarh Firema e le contraddizioni del PNRR nel Mezzogiorno

Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che il nostro Paese ha diligentemente inviato alla Commissione Europea per l’approvazione finale si fa un gran parlare di infrastrutture e, in particolare, di rafforzare la rete ferroviaria ad alta velocità e capacità nel Mezzogiorno. Nell’ambito della Missione 3 (Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile) il governo italiano intende investire circa 25 miliardi di euro per l’ammodernamento del sistema ferroviario italiano.

Stando a quanto riportato nelle 319 pagine del PNRR, l’obiettivo sarebbe quello di “potenziare il trasporto su ferro di passeggeri e merci su rete ferrovia, aumentando la capacità e la connettività della ferrovia e migliorando la qualità del servizio lungo i principali collegamenti nazionali e regionali” (PNRR, pag. 170).

Inoltre, fra gli obiettivi espressamente inclusi alla voce M3C1 del PNRR vi è proprio “l’aumento della competitività dei sistemi produttivi del Sud attraverso il miglioramento dei collegamenti ferroviari” (PNRR, pag. 171).

C’è però un problema. Mentre da un lato il governo alloca risorse per aumentare la competitività dei sistemi produttivi del Mezzogiorno attraverso un piano di miglioramento della rete ferroviaria, dall’altro le filiere produttive del Sud che dovrebbero partecipare alla trasformazione delle infrastrutture chiudono i battenti, dopo aver approfittato per anni di decontribuzioni e regalie statali.

È questo il caso dello stabilimento Titagarh Firema di Tito Scalo, in provincia di Potenza. La fabbrica lucana, in cui si progettano e producono motori per treni e metropolitane, è destinata alla chiusura entro il 31 dicembre 2022.

Dopo anni di aiuti di Stato e amministrazione straordinaria, i nuovi padroni indiani della Titagarh spa hanno deciso che semplicemente non è più profittevole mantenere lo stabilimento di Tito Scalo in funzione, mettendo i lavoratori davanti alla scelta (se di scelta si può parlare) di accettare forzosamente il trasferimento allo stabilimento di Caserta o il licenziamento.

La storia recente della Titagarh Firema S.p.A. – già Titagarh Firema Adler S.p.A, già Firema Trasporti S.p.A, già Metalmeccanica Lucana per quanto riguarda lo stabilimento di Tito Scalo – racchiude da sola tutti gli errori delle politiche economiche portate avanti nel nostro Paese negli ultimi anni e che vengono riproposte nel PNRR, comprendendo misure di socializzazione delle perdite, contributi a fondo perduto, assenza di una politica industriale e sostanziale abbandono al privato di un settore strategico per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Ma andiamo per punti.

Malgrado i contratti di fornitura e i contributi ricevuti dalla Regione Campania, nel 2009 il gruppo Firema Trasporti S.p.A. chiude l’esercizio con una perdita di 68 milioni a fronte di un fatturato pari a 148 milioni di euro. Un anno più tardi, nell’agosto 2010, il Ministero dello Sviluppo Economico decreta quindi l’ammissione del gruppo Firema alla procedura di amministrazione straordinaria.

La famiglia Fiore, a capo del defunto gruppo Firema Trasporti, esce quindi di scena, lasciando alla bad company in amministrazione straordinaria un buco di bilancio pari a 400 milioni di euro. Debiti accumulati da una gestione scellerata del privato, che sono stati puntualmente coperti dallo Stato.

Fra cassintegrazione ordinaria e straordinaria, ammortizzatori sociali, scarse commesse e nell’assenza di un preciso piano industriale, lamministrazione straordinaria di Firema si trascina avanti a fatica, finché nel 2015 non si fanno avanti degli acquirenti, l’azienda indiana Titagarh Wagons e la napoletana Adler Plastic, che danno così vita al gruppo Titagarh Firema Adler, che tre anni più tardi diventerà semplicemente Titagarh Firema S.p.A. a seguito della cessione delle quote azionarie da parte di Adler.

Questo è solo l’ultimo atto di una storia decennale, in cui si sono persi decine di posti di lavoro, a fronte di milioni di euro sborsati dallo Stato per coprire i buchi lasciati dalle scellerate gestioni dei privati che si sono succeduti alla guida dell’azienda.

Il resto è storia recente. Mentre da un lato a marzo 2021 Titagarh Firema vara un nuovo piano di investimenti, dall’altro punta alla chiusura dello stabilimento di Tito Scalo, concentrando così tutte le attività in Italia sullo stabilimento di Caserta. Del resto, il gruppo indiano non ha mai fatto segreto delle ragioni dell’interesse ad investire in Italia: acquisire know-how e competenze da poter applicare alla produzione manifatturiera in India.

Come l’azienda riporta trionfalmente in uno spot sul loro canale Youtube, il grande successo del gruppo Titagarh Firema viene dal “combinare design e tecnologie italiane con la manifattura indiana”. Come a dire che la produzione in Italia importa fino a un certo punto.

La manovra con cui l’azienda intende cessare le attività nello stabilimento di Tito Scalo arriva in un periodo particolare per operai e impiegati di Tito Scalo: a seguito del pensionamento anticipato di 21 lavoratori per esposizione all’amianto (e dopo i tagli al personale e mancate assunzioni degli ultimi 10 anni), nello stabilimento di Tito rimarrebbero appena 35 dipendenti.

L’azienda usa pertanto questo espediente per vender fumo ai lavoratori, convincendoli che l’unico modo per mantenere il loro posto di lavoro è il trasferimento a Caserta, ma dimenticando dei finanziamenti ricevuti per tenere aperto lo stabilimento di Tito Scalo – che fra l’altro è uno dei più grandi e strategicamente più importanti insediamenti nell’area industriale nel potentino.

Proprio qualche giorno fa, le RSU e i sindacati confederali hanno addirittura accettato la chiusura dello stabilimento, siglando un accordo che non potrebbe essere più al ribasso in cui si sentenzia la chiusura senza soluzione di continuità dello stabilimento di Tito Scalo in data 31 dicembre 2022.

In tutto ciò, il Ministero dello Sviluppo Economico e le autorità locali rimangono con un pugno di mosche in mano, incapaci di salvaguardare occupazione e redditi dopo aver per anni coperto debiti e regalato il regalabile a un privato che ha dimostrato tutta la propria inefficienza e incompetenza nel formulare un piano industriale che potesse rilanciare l’azienda. In un settore che – sfruttando le innovazioni tecnologiche e i piani infrastrutturali come quello contemplato dal PNRR nostrano – potrebbe avere significativi margini di espansione nel futuro prossimo, si smantella uno stabilimento strategico per lo sviluppo delle filiere industriali nel Mezzogiorno.

A poco servono così i 25 miliardi investiti nel PNRR per le infrastrutture ferroviarie nel Mezzogiorno, se le imprese e le filiere produttive del Sud che dovrebbero produrre componenti, motori e carrozze semplicemente scompaiono, lasciando dietro di sé un deserto post-industriale.

Si è parlato tanto del ritorno degli investimenti pubblici nell’epoca post-COVID. Se così è, allora i Ministeri dell’Economia e dello Sviluppo Economico facciano una scelta coraggiosa: acquisiscano gli stabilimenti a rischio chiusura come quello di Tito Scalo o quelli chiusi da una gestione scellerata del privato.

Il miglioramento infrastrutturale di vaste aree del nostro Paese non può che passare dalla costruzione di filiere produttive che portino e rafforzino la creazione di reddito e occupazione di qualità nel Mezzogiorno.

La gestione scellerata delle crisi industriali – tristemente avallata dai sindacati confederali – deve giungere a conclusione quanto prima possibile. Il sistema Paese e il nostro Mezzogiorno hanno bisogno di misure mirate e di un cambio di rotta.

Abbiamo bisogno quanto prima di una seria politica industriale.

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