Quando lo incontravo, la sera, a Piazza Bellini, o durante le tante manifestazioni in cui sfilavamo fianco a fianco, o in qualunque altra occasione, il mio saluto invariabile era “Preside esimio, come va?” Un saluto affettuoso, ironico ma che sottintendeva una deferenza amichevole. Una deferenza dovuta al compagno più esperto, più vecchio, che aveva fatto e visto tante battaglie!
Si è spento, ieri notte, Francesco Amodio. Dirigente Cobas. Compagno sempre in prima fila nella difesa delle ragioni dei lavoratori e dei più deboli. Nelle lotte per il diritto allo studio, la scuola pubblica -era effettivamente preside d’istituto- per la questione abitativa. E contro il razzismo, l’imperialismo, le politiche di austerità, il fascismo.
Ma soprattutto, un amico. Generoso, disponibile al dialogo e al confronto dialettico. Colto, dal sorriso dolce, e dalla simpatia immediata. Uno di quegli uomini che, seppur non vedi da tempo, ti lasciano dentro un ricordo profondo, di unione sentimentale e sincera. Di affettuosità, mai superficiale o artificiosa.
Folle quanto basta per rallegrare una compagnia. Amante della convivialità e del buon vino. Ma sempre lucido e capace di dare il suo contributo di saggezza e conoscenza, alle discussioni. Fossero esse di argomento politico -come accadeva il più delle volte- culturale o semplicemente quotidiano.
Una conoscenza che derivava da una vita piena, vissuta con rara intensità. Esopsta alle temperie della sofferenza intima, ma mai esibita; di un privato che fu complesso ma colmo di amore; e di una cultura politica che affondava le radici nei controversi anni ’70 della contestazione e del conflitto sociale.
Il suo era un marxismo eterodosso, mai ideologico, libertario, forgiatosi nella prassi di quella che noi, preistorici compagni, ancora ci ostiniamo a definire Lotta di Classe.
Francesco, però, non fu solo battaglia politica.
Ho avuto modo di conoscerlo alla fine del decennio ’80, per ragioni anche molto personali e legate ad un periodo della mia giovinezza non proprio memorabile. Allora conoscevo Massimiliano, il figlio. E, in quegli anni, qualche volta salivo a casa sua.
Sin da allora, malgrado io avessi evidenti problemi di tossicodipendenza, trovai in Francesco, in quel Preside anticonvenzionale ma attentissimo alle relazioni personali, un uomo che non giudicava, aperto, capace di comprendere i problemi, anche drammatici, che possono affliggere un giovane di vent’anni, nella società della disillusione consumistica.
Poco più tardi, lo incontrai durante le battaglie del Movimento Case Occupate e la lotta per Officina 99. Si combatteva insieme, contro la repressione istituzionale e sbirresca, ma non si era ancora amici.
Infine, poco meno di dieci anni fa, la nostra amicizia si consolidò, ai tavolini del bar arabo, dove spesso andavo a sedermi e a bere, e dove lavorava, e credo lavori ancora Raffaella, la sua compagna di vita.
Lunghe chiacchierate, tante risate in allegria e amicizia. Spesso, la domenica, mi trattenevo a mangiare da Omar, proprio per il piacere della compagnia di Francesco, con cui si parlava della politica attuale, delle lotte del passato, delle miserie della sinistra odierna o di teatro, arte, cinema.
Avevamo visioni diverse su scelte e strategie politiche da seguire, ma anche sulla storia del movimento operaio, sulle rivoluzioni passate, sulla Lotta Armata per il comunismo.
A tal proposito, ricordo accesi confronti, con lui critico, ma mai moralisticamente pregiudiziale, ed io,
, come sempre, a rivendicare le ragioni di quella scelta, compiuta da una parte della generazione che volle dare l’assalto al cielo.
Mi rimproverava spesso per la mia eccessiva esuberanza dialettica, per il troppo bere e percné, proprio a causa di ciò, tenevo la voce troppo alta.
La sera, quando andava via, mano nella mano con Raffaella -di cui chiamava spesso il nome, i cui occhi cercava come un porto a cui approdare, capace com’era lei di contenerlo, assecondarlo, amarlo come moglie, compagna, amica e fors’anche madre- mi piaceva guardarli da dietro, e pensare alla loro storia. Alla loro unione. Lui molto più grande di età. Lei molto più alta di lui. Una complicità amorosa e amorevole, che sfidava stupide convenzioni e malevoli conformismi. Quell’immagine mi apriva il cuore e mi rendeva un po’ meno pessimista sull’ umanità.
Lo avevo perso di vista, negli ultimi anni. Poi, la tremenda notizia della leucemia, appresa su facebook. Scrissi a Raffaella e chiesi se potevo chiamarlo. Mi diede il numero e gli telefonai.
Fu contento, ma si sentiva che era affaticato, stanco, preoccupato. Non per lui, ma perché -mi disse- voleva sistemare le cose prima di lasciare questa maledetta terra. Era preoccupato soprattutto per Massimiliano, che non stava bene. Mi venne da piangere e cercai di dissimulare la commozione.
Gli chiesi cosa pensassero i medici. Mi rispose che gli davano sei mesi o poco più. Una fitta mi colpì dritta in testa.
Te ne sai andato prima, piccolo grande compagno! Hai lasciato la mano della tua Raffaella. Ma io ti ricorderò sempre, legato a lei, mentre sparite tra le ombre della sera, nei vicoli di una Napoli antica.
Cià Preside. Che la terra ti sia lieve!
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