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Napoli tra la strage di lavoratori e l’ingorgo di giornate sempre uguali

Operaio di 70 anni è stato ricoverato dopo un incidente sul lavoro…”, un infortunio come tanti, un piccolo articolo in cronaca locale e, mentre scriviamo, non sappiamo se abbia o meno superato la notte. La prognosi è riservata e, del resto, il conto delle morti da lavoro è sempre più difficile da aggiornare. Perché ai 1200 morti ammazzati da fatica, bisogna aggiungere gli omicidi causati dallo stress e dagli incidenti che, non necessariamente ricollegabili al luogo e all’orario di lavoro, sono diretta conseguenza delle nuove schiavitù. Una strage.

L’ingorgo

Franco vive in uno dei tanti paesi “ano” del nostro Asse Mediano. Chiaiano, Marano, Qualiano, Giuliano… l’immensa Via Lattea vesuviana che collega i suoi tanti nulla al nulla. Inferni di logistica, di centri commerciali e di edilizia. Appunto: quel fraveca e sfraveca a nero dove la vita diventa ergastolo.

Franco ha 50 anni, pochi denti, tanti fallimenti e nessun contributo versato. Guadagna 75 euro al giorno, ma esce di casa alle 6 e prima delle 22 non è mai di rientro. L’ennesima bugia dei padroni, che si trasforma in un “prendere o lasciare”, dove o ci si ammazza di fatica o un piatto a tavola, per quelli come Franco, diventa ricatto totalizzante.

Così gli è stata negato una infanzia, una giovinezza, una vita: sempre su e giù sull’Asse Mediano, sempre sporco, sempre in ritardo con sé stesso. Tutto scivola via: figli distratti, mogli infedeli, amici lontani e lui sente di non farcela più. Ma che fare? Si arriva alla pensione minima senza niente. Ed è esattamente questo che obbliga un Uomo di settanta anni a salire su un’impalcatura: può cadere, vero. Ma può anche non volare giù e mettere il piatto a tavola.

Michele, invece, è uno schiavo della logistica. Altra esistenza smarrita sul nostro Asse Mediano. Nei nuovi lager del turbo capitalismo anche i rapporti umani si liquefano. Uno parla con una voce di chissà dove che non ha mai visto in faccia, monta mobili che non conosce chi ha consegnato, in case anonime: tutte ugualmente arredate. Un minimal talmente omologante che fa orrore.

Anche Michele, nello spacchettamento dei servizi e degli appalti, è l’anello ultimo della catena e, per fare la giornata, non riesce a costruirsi una vita privata e, alle volte, nemmeno a mangiare a pranzo. Una volta lo ho osservato, verso le otto di sera, mentre con una mano montava un mobile e con l’altra ingoiava senza masticare una fetta di torta che gli avevo offerto.

L’ingorgo, come simbolo di esistenze dove le giornate si somigliano, si spiaccicano l’una sull’altra e dove anche la vecchiaia, l’inevitabile danza del tempo, diventa malattia. L’Uomo ridotto a macchina scassata, quindi a rifiuto umano non riciclabile. Le discariche dei nostri abbandoni, trasformano ogni inciampo in alienazione, ogni acciacco in umiliazione.

Io sono come un libero professionista: più faccio e più guadagno e così, se ho fretta, salto il pranzo. Difficile montare i mobili da solo? Vero: però non devo dare retta a nessuno e, alla fine, guadagno qualcosina di più.

I danni fisici e psicologici che le nuove schiavitù impongono sono omicide, anche laddove non si cada da un’impalcatura. Vite monche, esattamente come le dita o le mani che la cultura del cottimo immola al profitto dei padroni.

Nella Napoli delle calamite cinesi a 0,50 centesimi, delle calze vendute a rate dai disoccupati, dei cuoppi fritti e della bavosa classe feudale di sempre, questi omicidi della fretta e della precarietà ricadono come macigni sulle coscienze di ciascuno di noi.

Il liberal fascismo, per quanto più elegante del fascio leghismo, fa gli stessi morti. Li fa di Lavoro, ma anche di assenza di lavoro. Li fa di guerra. Li fa in un disservizio circolare, talmente tanto solido, da offuscare ogni orizzonte nelle nostre periferie dell’anima.

Così, cottimisti del nulla, i nostri giovani si immolano, perdendo occhi, braccia, mani o la stessa vita, in cambio di una sopravvivenza lurida e stentata, isolati dalla società a rango di schiavi e senza avere nemmeno l’opportunità di comprendere il meccanismo che gli toglie il respiro.

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