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Ergastolo ai bambini. Una riflessione a partire da un caso a Scampia

Il Servizio Politiche per l’infanzia e l’adolescenza dell’Assessorato al Welfare del Comune di Napoli è intervenuto questa mattina per mettere in sicurezza e tutelare cinque minori provenienti dai campi rom di Scampia…” Fanpage 2 luglio 2025.

Mettere in sicurezza” è una idea che io associo ad un imminente pericolo, tipo un crollo, da arginare. Molti dubbi, non solo grammaticali, sull’utilizzare questa espressione sul destino di bambini in difficoltà. “Mettere in sicurezza”, espropriando il minore dal suo contesto di riferimento ed “inviarlo” presso strutture di contenimento burocratiche e omologanti.

Può essere utile?

Istituzionalizzare in modo coatto un bambino produce un duplice effetto: A) creare nel piccolo un senso di rivolta permanente nei confronti di ogni Istituzione, vista come nemica e cattiva. B) allontanarlo dalla sua comunità di riferimento che, per quanto può essere disfunzionale, è l’unica che ha.

Parte, spesso, dall’azione omologante degli eserciti della bontà o dalle lore metastatiche propaggini politiche, l’iter che invia il minore alla carriera del “diversamente ergastolano”, per cui la vita diventa un susseguirsi di detenzioni, più o meno brevi, più o meno auto imposte, ma comunque con un “fine pena mai” strutturale, sebbene non sancito da sentenza.

Che siano case famiglia, comunità, carceri minorili, residenze aperte, carceri… si avvia il minore ad intraprendere la carriera di una marginalità afona e, zuccherosamente, assistita da un welfare sciatto, con tutte le negatività del clerico-fascismo.

Ma, possiamo aggiungere, alla burocratizzazione della esistenza si aggiunge una potenzialità concreta di cadere in altre forme di detenzione, che siano le tossicodipendenze, legami violenti o i disturbi psichiatrici, la disfunzionalità di questi bambini, attraverso le strettoie perverse della “sicurezza”, si trasforma in alienazione perpetua e in malattia.

Il guaio, ma guaio nero nero, è che le crocerossine della bontà hanno, purtroppo in buona fede, la presunzione di poter risolvere d’autorità qualcosa che si può risolvere solo con il dialogo e con interventi strutturali nei contesti di marginalità.

Lula, ad esempio, ha vincolato il suo enorme programma di aiuto alle favela, durante il suo primo mandato, fatto di risorse economiche e derrate alimentari, al fatto che le stesse famiglie inviassero i figli a scuola. Dando, così, al bambino della favela la potenzialità di crescere nella sua comunità, ma di farlo apprendendo lingua e mestiere del “fuori”.

Risultato: una nuova intelligenza brasiliana, dove dalle favelas, sono usciti laureati, professori universitari e fior fiore di professionisti. Vivere senza amore, per quanto gli algidi paladini del bene nostrani facciano finta di non saperlo, produce danni psicologici infinitamente maggiori che sopravvivere in assenza di una assai presunta “messa in sicurezza”.

Li produce in modo incontrovertibile, trasformando le catene della marginalità, in sbarre di una cella, che cambia continuamente nome, ma che segna il destino di questi bambini. Del resto l’idea del campo di concentramento finisce per incunearsi in ogni agire politico: dallo smantellamento della 180 ai CPR, dai lager della logistica alle case gabbia di pochi metri quadrati, però se iniziamo ad applicarlo ai bambini togliamo ogni speranza a queste fragilità.

Lingua madre, appunto, quella Identità che la globalizzazione e il liberal fascismo vogliono cancellare. Il mondo Rom, in qualche modo, deve scomparire e alternare una sotto proletarizzazione grigia, alla “ergastolinizzazione” della propria esistenza.

I piccoli ergastolani della bontà non hanno dialetto: nell’alternare detenzioni anche la sonorità delle parole scompare. Un idioma misto tra italiano, romano, siciliano, napoletano. Senza il colore delle parole a questi ergastoli viene aggiunta la peggiore pena accessoria: il silenzio nel cervello.

L’incapacità di chiudere un pensiero circolare che vada oltre la bidimensionalità di un bisogno. Così diventa difficile anche spiegargli come si fa un uovo fritto e si finisce per abituarsi a vedere queste esistenze collegate al cordone ombelicale di mamma carcere, qualunque sia il nome che in quel momento gli si vuole dare.

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