L’autunno del 2025 sarà probabilmente ricordato come la stagione della ripresa del conflitto sociale reale in un Paese addormentato da decenni.
Gli scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre indetti e promossi dall’Unione Sindacale di Base, le 100 piazze per Gaza divenute 100 assemblee permanenti, la grande manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma con oltre un milione di manifestanti scesi in piazza a sostegno del popolo palestinese e della sua Resistenza e contro il governo Meloni, sono la testimonianza concreta che un pezzo di società ha ripreso più o meno timidamente a muovere dei passi sulle proprie gambe.
Se si presta la dovuta attenzione la constatazione più evidente è che, pur nella sua eterogeneità, questo addentellato ha un tratto comune: l’indipendenza dal blocco di potere unico che va dal campo largo alle destre al governo.
In questo autunno così caldo – non solo per gli effetti del cambiamento climatico – puntuale rispunta la favola del “granello di sabbia negli ingranaggi”. Entrare nelle coalizioni del centrosinistra per provare a spostarlo dall’interno, per provare a grippare le ruote e le cinghie che ne muovono, spesso, politiche del tutto assimilabili per sostanza e anche per forma a quelle dei nemici di classe: privatizzazione, rendita, overtourism, austerità, riarmo.
Come la storia ci spiega, però, non serve tornare molto indietro negli anni per arrivare al 2006 quando proprio il centrosinistra al governo rifinanziò le missioni all’estero – Afghanistan in primis – con ricadute devastanti sulla credibilità della sinistra radicale “di governo”; oppure al 2008 quando la Sinistra Arcobaleno sparì dal Parlamento, centrifugata tra compatibilità e subalternità. Ogni volta che la “parte sociale” è entrata in coalizioni centriste come granello, è uscita come polvere. Perché gli ingranaggi sono progettati proprio per levigare, inglobare o triturare qualsiasi tentativo di smuovere il blocco di potere unico che ne governa le dinamiche.
Ecco che l’indipendenza diventa non un vezzo o un capriccio, ma l’unico modo per provare a portare la voce delle piazze fin dentro ai palazzi. Per evitare che, ogni volta, debbano essere le lotte stesse ad adattarsi pur di meritare l’attenzione di chi quei palazzi li abita ormai da trent’anni.
Dopo l’esperienza di Toscana Rossa e assieme a quella di Puglia Pacifista e Popolare, la lista Campania Popolare, costruita da Potere al Popolo! assieme a PCI e PRC con Giuliano Granato candidato alla presidenza della Regione, si pone l’obiettivo proprio di dar sfogo elettorale alla mobilitazione organizzata dei mesi passati. Là dove le realtà emerse sono per certi versi ancora “nuove” ma sedimentate e organizzate, il punto politico che ne discende è semplice: se l’energia sociale trova un canale autonomo smuove i governi; se si infila nei “fronti contro le destre” senza rottura di modello, viene neutralizzata.
Alle Regionali Campania 2025 la macchina è stata infatti ben visibile sin dalla prima ora con le due coalizioni principali che all’esterno si pongono con linee diverse ma che si fondano sul solito telaio di governance.
Non sorprende quindi la migrazione dei pacchetti di voti da una parte all’altra dei due schieramenti del bipolarismo, né stupisce la presenza dei “figli di” per assicurare poltrone agli eredi di Mastella, De Luca, Cesaro. Nemici del Movimento fino a qualche mese fa, alleati preziosissimi oggi nella larghissima coalizione per la corsa a Palazzo Santa Lucia.
Roberto Fico diviene quindi il volto rassicurante della continuità per raccogliere l’eredità decennale deluchiana.
Un’eredità che sancisce il solco tra retorica e pratiche: la proposta di trasformazione di Acqua Bene Comune – figlia del referendum 2011 – da azienda pubblica in S.p.a. si accoda alla turistificazione sregolata che produce sfratti e aumento incontrollato degli affitti, desertificando i centri storici un B&B dopo l’altro. Infrastrutture e Trasporto Pubblico Locale restano terreno di concessioni e subappalti, ad uso esclusivo dei turisti, mentre le periferie vengono sempre più isolate e marginalizzate.
La sanità regionale continua a reggersi su esternalizzazioni, liste d’attesa infinite e promesse di maxi ospedali per regalare milioni di soldi pubblici alle imprese di costruttori amici, in spregio alla territorialità che invocano i cittadini. E ancora i grandi eventi come la Coppa America che tolgono pezzi interi di territorio ai residenti per trasformarli in “vetrine” di lusso ad uso esclusivo dei grandi investitori esteri. La terra dei fuochi un problema ormai ignorato, i roghi del Parco Nazionale Vesuvio una tradizione estiva, Bagnoli e San Giovanni agnelli sacrificali in nome del profitto.
La lista di rottura di Campania Popolare con chi governa questa regione da dieci anni e che si appresta, ancora una volta, a farne merce di scambio, è invece figlia dei bisogni di chi dalla propria terra non vuole più essere costretto ad emigrare, di chi è stanco di vedersi sottratto centimetro dopo centimetro ciò che gli appartiene.
Non è un caso che tra i candidati e le candidate ci siano lavoratrici e lavoratori, pensionati, studenti, cittadini che animano i comitati e i collettivi, individualità che il territorio lo conoscono e lo capiscono e che “figli di” non lo sono mai stati.
Gli 8 punti presentati nel Programma elettorale – l’unico programma ad essere stato presentato a tre giorni dal voto – non rappresentano solo l’estetica della discontinuità, ma intercettano e provano ad arginare i problemi tangibili di coloro che non possono fare a meno di lottare.
Sanità pubblica e territoriale, salario minimo negli appalti, TPL come diritto, ambiente e casa contro rendita e turistificazione, istruzione pubblica e politiche sociali, lotta alla criminalità e alla corruzione, no alla politica di guerra e al riarmo, fine di ogni complicità con Israele.
Parole d’ordine che non si esauriscono nel voto del 23 e 24 novembre ma che Campania Popolare ha la possibilità di portare all’interno delle istituzioni come banco di prova elettorale e primo segnale di tenuta politica di questa alternativa.
Le regionali del prossimo fine settimana sono, in tal senso, soltanto un passaggio in un processo che non accenna a fermarsi: nessuna euforia – e nessuna delusione – potranno condizionare la ripresa delle grandi mobilitazioni contro la finanziaria di guerra del Governo Meloni, con lo sciopero generale promosso dall’USB il 28 novembre e la manifestazione nazionale del 29 a Roma.
Tutte tappe intermedie di un percorso che è passato per le due assemblee tenutesi a Roma il 25 ottobre e il 19 novembre al Cinema Aquila, costruite proprio in nome dell’indipendenza di classe per la costruzione di un blocco sociale organizzato. Un blocco che guarda già alle politiche del 2027 come vero orizzonte politico in cui collocare lotte e rivendicazioni che il bipolarismo parlamentare ha espulso come corpo estraneo e che solo l’organizzazione di un’alternativa di sistema può riportare al centro dell’agenda politica di questo Paese.
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