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Parma. “L’euro è un legno nato storto”

 “L’euro è nato storto. È un legno storto e non si può raddrizzare” ha affermato Eugenio Pavarani, economista dell’Università di Parma che, con l’europarlamentare del Movimento 5 Stelle Marco Zanni , ha aperto l’iniziativa L’Europa delle banche e dell’euro dopo la Brexit, organizzata lo scorso 30 settembre da Ross@ Parma e dagli Amici di Beppe Grillo (il gruppo dei 5 stelle che a Parma ha rotto da tempo con l’operato neoliberale del sindaco della città ducale, Federico Pizzarotti). Erano presenti in sala una cinquantina di persone, tra cittadini e attivisti.

L’Unione monetaria è uno strumento della governance europea, non disgiungibile dalle politiche di austerity. Dunque non si tratta di un treno accidentalmente deragliato, ma di un progetto nato appositamente per svolgere i compiti che sta portando a termine. Un progetto che ha privato gli stati del necessario meccanismo di aggiustamento e di riequilibrio macroeconomico: la leva del tasso di cambio, originariamente posta a tutela della produzione nazionale. Con ben altri strumenti occorrerebbe intervenire per permettere il riequilibrio tra le economie dei vari paesi, ma non è un caso che questo non sia avvenuto e non avvenga in Europa, dal momento che l’intera architettura istituzionale della UE non garantisce trasferimenti finanziari dalle zone ricche a quelle più povere. Fu, del resto, già Robert Mundell a lanciare il monito nel 1961, quando dichiarò velleitaria un’area valutaria ottimale, senza le precondizioni necessarie per garantirne la fattibilità. In tempi più recenti è stato l’economista francese Jacques Sapir a calcolare che una “transfer union” comporterebbe per la Germania il costo di 200 miliardi all’anno, una cifra che non riceverebbe mai l’avvallo del popolo tedesco. Un autentico bilancio federale è, dunque, oggi impossibile e persino vietato esplicitamente dai trattati e dai documenti strategici di lungo periodo della Commissione europea. L’unico strumento di adattabilità rimane, allora, quello delle cosiddette “riforme”, parola che cela l’attuazione di misure per rendere più competitive le economie dei paesi, agendo sulla deflazione salariale, cioè sull’abbassamento del costo del lavoro per unità di prodotto attraverso la compressione degli stipendi, sulla flessibilità, sulla frammentazione del lavoro, cui seguono i tagli alla spesa sociale. Secondo l‘ideologia sottesa a queste misure, maggiore competitività significherebbe maggior capacità produttiva per ciascun paese, maggiori esportazioni e, conseguentemente, surplus commerciali in positivo. Tuttavia, da un punto di vista macroeconomico, tutti gli economisti sanno che una bilancia commerciale in positivo per un paese, quindi maggiori esportazioni, comporta necessariamente maggiori importazioni per un altro, quindi un surplus negativo. Questo avviene perché la maggior parte del commercio comunitario è basato sul modello mercantilistico tedesco, cioè sul primato commerciale della Germania che deprime le economie degli altri paesi membri. Nonostante questa evidenza empirica, viene veicolata e sostenuta l’opinio communis che la maggiore competitività della Germania derivi dalla presunta virtuosità ed operosità teutonica e che il “ritardo” degli altri paesi dipenda dalla mancata attuazione delle riforme. La mezzogiornificazione dell’Europa è dovuta, invece, proprio al vantaggio competitivo dato dal combinato disposto di deflazione salariale e moneta forte. In altre parole, dalla fissazione del tasso di cambio, che impedisce un riallineamento delle economie, specie durante periodi di crisi come questo. In conclusione l’euro rappresenta un attacco alle classi lavoratrici. “L’euro è uno strumento del capitale”, ha affermato Pavarani, che avvantaggia la concentrazione della ricchezza in alcuni paesi e va a favorire alcune classi sociali, a discapito di altri paesi, delle fasce deboli della popolazione e di un ceto medio sempre più impoverito. È, insomma, uno strumento della lotta di classe condotta dall’alto, un mezzo pensato per essere impugnato dal capitale, mai dal popolo.

Marco Zanni, sulla scorta di quanto affermato da Pavarani, ha sottolineato che, anche se l’indebita sovrapposizione tra Europa e UE/euro non dovrebbe impedire di pensare a una diversa forma di cooperazione fra stati europei, l’unica via oggi realisticamente praticabile è innanzitutto l’uscita dalla zona euro. La riappropriazione e l’esercizio della sovranità nazionale dovrebbero essere una precondizione per salvaguardare quel residuo di sovranità popolare e di welfare in grado di frenare il processo di de-democratizzazione dall’alto in atto su scala continentale. L’attacco alla democrazia, infatti, avviene principalmente abbattendo i già scricchiolanti pilastri della democrazia economica. Intanto per cominciare la stessa politica monetaria divenuta competenza esclusiva dell’UE, con la BCE ha reso via via sempre più evidenti le disparità tra gli stati membri: tanto che attraverso il sistema di pagamenti TARGET2, i saldi accumulati dalla Germania sono sempre più positivi (+ 300 miliardi), mentre quelli dei paesi del sud sempre più negativi. Dunque a fianco di un’insostenibilità democratica vi è anche una sempre più manifesta insostenibilità tecnica. Lo stesso fondo salva stati (che sarebbe più corretto chiamare “salva banche”) verrà presto trasformato in un vero e proprio “Fondo monetario europeo”, imitando così pericolosamente, nel funzionamento, il già esistente FMI, le cui prescrizioni non sono andate e non vanno certo nella direzione di una maggiore democratizzazione e giustizia sociale. “Cosa succederebbe”, si chiede Zanni, “se ad un certo punto le maggiori agenzie di rating declassassero i bond italiani a «junk» bond”? La BCE non potrebbe più acquistarli, scoperchiando, così, il vaso di Pandora dell’insostenibilità dell’intero sistema. Lo sguardo di un europarlamentare che con lucidità coglie, dall’interno, gli elementi disfunzionali della costruzione comunitaria, ci aiuta a smontare quella retorica che ammorba larghe fasce di popolazione ancora narcotizzate e inspiegabilmente fiduciose nella riformabilità del sistema. Basti pensare al ritornello sui fondi europei mal spesi o alle grandi opere della BEI (la Banca Europei per gli Investimenti). Si pensi al caso Castor per il deposito di gas: un’opera faraonica costruita su una zona sismica, attraverso i famosi “project bond” (i nuovi strumenti finanziari che dovrebbero generare investimenti attraverso effetti “moltiplicatore”) e al famoso “piano Juncker” dei 21 miliardi che dovevano magicamente diventare 315! Sono solo alcuni esempi a dimostrazione che la dimensione sovranazionale non è per sua natura qualcosa di necessariamente positivo e non è sinonimo di solidarismo tra le nazioni, ma, anzi, si rovescia oggi nel suo contrario, nel “cosmopolitismo del capitale”, nella produzione e circolazione illimitata di merci, servizi, persone e capitali. Una circolazione infinita, sbandierata, che uccide i popoli, privandoli della voce, sfruttandoli e sradicandoli. Per questo un autentico discorso anticapitalistico, come ha affermato Diego Melegari (che ha preso la parola a nome di Ross@ e di cui riportiamo di seguito l’intervento) non può rinunciare a porre come momento contingente la rottura con l’UE e con l’euro, come attuale forma politica di dominio. “Dichiararsi anticapitalisti e non essere contro l’UE è come dichiararsi non violenti e avere qualche simpatia per Jack lo Squartatore!”. Anche Zanni ha ribadito che l’unica via sensatamente praticabile  per dare forma e sostanza ad una politica che vada nella direzione dei lavoratori e del popolo è quella della sovranità popolare e nazionale. Perciò ben vengano iniziative capaci di aggregare forze su questi contenuti e su posizioni dirimenti e non su astratte ricette per le osterie dell’avvenire.

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