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Potere al Popolo Lazio: “la sanità non è un’azienda”

«La crisi (sanitaria ndr) ha messo in luce anche, e soprattutto, i rischi insiti nel ritardo con cui ci si è mossi per rafforzare le strutture territoriali a fronte del forte sforzo operato per il recupero di più elevati livelli di efficienza e di appropriatezza nell’utilizzo delle strutture di ricovero.

Se aveva sicuramente una sua giustificazione a tutela della salute dei cittadini la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate riducendo quelle minori che per numero di casi e per disponibilità di tecnologie, non garantivano adeguati risultati di cura, la mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate.

Se fino ad ora tali carenze si erano scaricate non senza problemi sulle famiglie, contando sulle risorse economiche private e su una assistenza spesso basata su manodopera con bassa qualificazione sociosanitaria (badanti), finendo per incidere sul particolare individuale, tale carenza ha finito per rappresentare una debolezza anche dal punto di vista della difesa complessiva del sistema quando si è presentata una sfida nuova e sconosciuta.

È infatti sempre più evidente che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo.

L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto».

Esordisce così la Corte dei Conti nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica” nel capitolo dedicato alla “Sanità e il nuovo patto della salute”. Un centinaio di pagine in cui, dati alla mano, vengono esaminati i tratti strutturali, frutto di scelte operate in campo sanitario negli ultimi anni, che hanno determinato, in occasione dell’emergenza sanitaria, una situazione di debolezza insita del sistema, sottolineando come non tutte le risorse stiano state distribuite e gestite nel modo migliore possibile.

Già, perché se «la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate riducendo quelle minori» potrebbe avere in “tempi di pace” una giustificazione di razionalizzazione delle risorse, in occasione di una emergenza sanitaria tale scelta diventa drammaticamente foriera di disuguaglianze territoriali.

E così è accaduto che in occasione di pandemia globale, i territori con meno popolazione o con agglomerati sanitari più piccoli, stando ai movimenti di danaro e materiali, sono stati messi in secondo piano, causando più di qualche problema alla lotta contro il Covid-19 e sacrificando un tributo inammissibile in termini di vite umane.

Differenze inaccettabili nella qualità dei servizi offerti nelle diverse aree del Paese, che si traducono nelle carenze di personale di organici “razionalizzati” nelle politiche di risanamento, nelle insufficienze dell’ assistenza territoriale a fronte del crescente fenomeno delle non autosufficienze e delle cronicità (messa ancora più in ginocchio dall’invecchiamento progressivo della popolazione), nel lento procedere degli investimenti sacrificati a fronte delle necessità correnti.

Differenze che hanno lasciato il segno sulle famiglie che, di fronte a una crisi sanitaria che si è ben presto trascinata dietro una profonda crisi economia, non sono più riuscite a sostenere il peso economico di una carente assistenza territoriale.

Tra gli aspetti indagati dai magistrati contabili, quelli che vengono ritenuti come maggiormente critici sono la graduale riduzione della spesa pubblica per la sanità e il crescente ruolo di quella a carico dei cittadini, la contrazione del personale a tempo indeterminato e il crescente ricorso a contratti a tempo determinato o a consulenze (condizione che ha provocato una “fuga” all’estero di oltre 10mila camici bianchi, volati in Germania, Francia e Regno Unito in dieci anni, al ritmo di circa un migliaio ogni anno), la riduzione delle strutture di ricovero e l’assistenza territoriale e il rallentamento degli investimenti.

Tutti aspetti che in qualità di cittadini utenti e di lavoratori della sanità abbiamo avuto la sventura di saggiare sulla nostra pelle quando ci ritroviamo a dover attendere per diversi mesi per un’indagine o un ricovero di routine, o quando i lavoratori si vedono bloccati per anni concorsi e graduatorie per l’accesso a un contratto pubblico, in favore di un continuo ricorso a cooperative e di cessione di “pezzi” di sanità alla gestione privata.

Ma se la Corte dei Conti mette nero su bianco che l’unico modo per superare le criticità evidenziate soprattutto in termini di disuguaglianze prodotte da siffatto sistema è quello di partire subito con i piani regionali di riorganizzazione per un’assistenza capillare sul territorio ed in particolare di quella domiciliare, che ha rappresentato «uno dei punti deboli durante la pandemia, ma di cui già in precedenza erano evidenti le carenze», la stessa avverte che solamente il potenziamento dell’offerta dei posti letto e la capacità di accoglienza dei pronto soccorso possono garantire una qualità dell’assistenza anche una volta superata la fase di emergenza.

Il tutto, continua la Corte, continuando a controllare la spesa sanitaria per evitare che, come in passato, «inefficienze e cattiva gestione» si mangino le risorse aggiuntive destinate invece ad aumentare i servizi al cittadino.

Alla luce di quanto accaduto negli ultimi tre mesi e di quanto analizzato nel rapporto della Corte dei Conti, è evidente che il modello di sanità implementato in Lombardia abbia mostrato tutte le criticità che i magistrati contabili ci hanno indicato, e soprattutto ne impedisce il controllo sulla spesa.

Un modello, quello lombardo, replicato in forma più o meno spinta anche in altre regioni, come la Regione Lazio che presenta un peso del privato accreditato equivalente a quello pubblico per quanto riguarda i ricoveri, e un quarto della spesa pubblica veicolata sul privato convenzionato.

Un modello di gestione pubblico-privato che non riesce a soddisfare i bisogni dei cittadini né in termini di efficacia e di capillarità dell’offerta dei servizi, né in termini di efficienza: si spendono troppi soldi, ai privati vengono lasciati i servizi più remunerativi come le RSA e le Case di Cura, i servizi sono erogati con il contagocce e con evidente disparità nella erogazione dei LEA.

Se si accetta l’analisi condotta dalla Corte dei Conti e se ne condividono le indicazioni a superamento delle criticità, se ne deduce che il raggiungimento degli obiettivi dichiarati nel rapporto non può eludere dalla necessità di un Servizio Sanitario Nazionale che torni ad essere completamente gestito dal pubblico con ottiche non aziendaliste, in forma centralizzata, avvalendosi di lavoratori direttamente contrattualizzati, e con attenzione alla medicina territoriale.

Non è solamente una questione di civiltà, come afferma la Corte, ma è una scelta obbligata, «l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo».

Tavolo Regionale Sanità – Potere al Popolo Lazio

Di seguito, il video (parte 1 e parte 2) dell’assemblea regionale di sabato 6 giugno sulla sanità pubblica

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