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Dalla Palestina alle nostre borgate: la Resistenza di ieri guida le Resistenze di oggi!

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un momento di mobilitazione storico per la Palestina, contro il genocidio e contro la complicità del nostro governo con Israele, nell’eco dei portuali che hanno gridato “blocchiamo tutto”: proteste, presidi permanenti, due scioperi che hanno coinvolto milioni di persone indetti dall’Unione Sindacale di Base (USB) e dal sindacalismo di base, scuole e università occupati in tutta Italia.

Anche noi, dalle nostre borgate, ci siamo fatte sentire, a partire dai cortei e le “carovane” sulla Tiburtina, le iniziative con le bambine e i bambini di Magliana, il volantinaggio a Primavalle: il nostro modo per rappresentare quel “filo rosso” che unisce la Palestina ai nostri quartieri. Perché le bombe utilizzate per portare avanti il genocidio in Palestina sono pagate con le risorse sottratte ai nostri quartieri popolari, ai nostri servizi, ai nostri CAV e consultori, al nostro diritto alla casa, ai nostri salari, ai nostri diritti, alla nostra possibilità di avere una vita dignitosa.

La legge finanziaria attualmente in discussione e il dibattito sull’aumento della spesa per la “difesa” europea ci parla proprio di questo. Abbiamo portato nelle nostre borgate anche la nostra rabbia contro una presidente del Consiglio che ha costruito la propria identità politica sul linguaggio della maternità e della cristianità, ma si è resa complice del genocidio contro il popolo palestinese.

Nello stesso tempo, ha attaccato chi ha messo a rischio la propria vita sulle flotille per fermare l’assedio, ignorando e denigrando le milioni di persone che in piazza chiedevano le sue dimissioni. Insieme alle donne e libere soggettività dei nostri quartieri, abbiamo risposto – e continueremo a mobilitarci per farlo – in modo chiaro: Giorgia Meloni e il suo governo non ci rappresentano.

Non possono rappresentarci mentre, da un lato, si proclamano paladini della famiglia e delle pari opportunità, e dall’altro hanno sostenuto un genocidio in Palestina con l’obiettivo di sterminare donne, uomini, bambini, intere famiglie. Non possono rappresentarci mentre smantellano tutele e servizi pubblici, attaccano in modo silenzioso ma sistematico il diritto all’aborto, svuotano i diritti rivolti a donne e persone queer (e favoriscono campagne e associazioni “pro-vita”), investendo invece in spesa militare e politiche securitarie e repressive.

Questo governo non difende la vita: è complice nella sua distruzione. E Meloni non è altro che un’altra espressione di una società che alimenta la guerra, la violenza e l’oppressione, dentro e fuori dall’Italia. Mentre poi il Paese intero continua a mobilitarsi per la Palestina, non smettiamo di assistere alla violenza dello Stato terrorista di Israele, mentre i politici chiamano “pace” una tregua che rischia in ogni momento di saltare: infatti sappiamo bene che il cessate il fuoco non ha mai fermato l’uccisione di palestinesi, né gli attacchi di Israele in tutto il Medio Oriente, nonostante i media cerchino in tutti i modi di nasconderlo.

Questa “pace” introdotta dal piano Trump (che già così sarebbe un ossimoro) non deve illuderci: è nelle mani di Israele e degli Stati Uniti, ed è solo l’ennesima manovra delle cosiddette “democrazie” occidentali per proteggere i propri interessi e difendere un progetto coloniale di appropriazione indebita di un territorio e delle sue risorse che va avanti da decenni. La logica dietro questo genocidio è rivelata nei progetti della “riviera Gaza” e nelle parole di Trump, che, giunto in Israele, ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno fornito all’esercito israeliano enormi quantità di armi, e che queste sono state “ben utilizzate”.

Certo, per sterminare bambine, bambini, donne e uomini evidentemente considerati di “serie B”. Ma la nostra preoccupazione non si limita solo a quanto sta accadendo in Palestina, riguarda infatti anche i venti di guerra che continuano a soffiare dall’Ucraina, dove si insiste nell’alimentare la guerra tramite un costante invio di armamenti e per la quale si sta portando avanti una pervasiva militarizzazione della società attraverso la propaganda e la retorica della “sicurezza”.

Il piano di riarmo europeo ormai fa sempre più parte delle nostre vite e dell’economia del Paese, dove invece di parlare di case, trasporti, servizi, si parla ormai di aerei militari, droni e missili. In Italia, solo pochi giorni fa è stato pubblicato il nuovo Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2025-2027, che prevede ulteriori 130 miliardi di investimenti in armamenti e infrastrutture militari nei prossimi quindici anni. Questo si aggiunge all’aumento di spesa per la difesa di 23 miliardi previsto nel Documento di Programmazione Economico-Finanziaria recentemente approvato dal governo Meloni.

Cifre enormi che, come si evince dalla legge di bilancio, prosciugano risorse da tutti gli altri settori essenziali: sanità, istruzione, prevenzione della violenza di genere, assistenza a famiglie e anziani, trasporti e molto altro. Una “transizione al militare” che riguarda il governo Meloni così come le “opposizioni”, in primis il Partito Democratico che ha deciso di appoggiare il piano di riarmo europeo: un insulto alla volontà della maggioranza della popolazione, schierata invece contro la guerra e con il popolo palestinese. E il governo lo sa bene: è proprio per questo che il governo Meloni intensifica il proprio impianto repressivo e autoritario.

Ne è un esempio il disegno di legge Gasparri, che vuole equiparare antisionismo e antisemitismo (operazione promossa da tutto il governo, come dimostrano le parole di Roccella sulle “gite” ad Auschwitz), aprendo così la strada a gravi ripercussioni penali per chiunque osi criticare il terrorismo di Israele, il sionismo e, di conseguenza, le politiche dello stesso governo italiano. Un disegno di legge che coinvolge la pubblica amministrazione e mira a trasformare la scuola e le università da spazio di formazione del pensiero critico a luogo di controllo ideologico.

È evidente: per questo governo è prioritario reprimere le proteste contro Israele piuttosto che garantire l’educazione pubblica, come dimostra la continua mancanza di fondi oppure la sistematica rimozione di ogni proposta volta a introdurre l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole.

A pagare il prezzo più alto di questa folle corsa al riarmo siamo soprattutto noi, donne e persone queer delle periferie e dei quartieri popolari e tutti coloro che vivono nella carenza dei servizi pubblici e, di fronte a un costo della vita insostenibile e salari da fame, sono costretti a rivolgersi al privato o rinunciare del tutto alle cure e ai servizi.

Consultori chiusi per mancanza di personale, ospedali e strutture sanitarie sempre più svuotati, scuole fatiscenti, carenza di trasporti, mancanza di case popolari, difficoltà ad arrivare a fine mese: questa è la realtà di chi vive nelle nostre comunità. Cosa succederà se questa riconversione bellica e militarizzazione della società continuerà a questo ritmo?

Quello che accade a livello internazionale ha quindi ripercussioni concrete sulle nostre vite, anche se imparagonabili rispetto a quelle subite dal popolo palestinese. Consentirlo significa legittimare lo schiacciamento della maggioranza della popolazione non privilegiata, delle donne e delle libere soggettività delle nostre borgate, di chi non dispone di risorse economiche sufficienti, a favore degli interessi di chi si arricchisce sulla vita dei palestinesi e sulle nostre.

In un’intervista di qualche tempo fa, Leila Khaled, storica militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, diceva: “è un’equazione: dove c’è occupazione, c’è resistenza. Non può essere diversamente, quando sei oppresso resisti”. E questo è vero per le palestinesi e i palestinesi che resistono da 77 anni, è stato vero per le partigiane e i partigiani che hanno lottato con ogni mezzo necessario nella Resistenza al nazifascismo ed è vero anche oggi per chi resiste quotidianamente nei nostri quartieri, sui posti di lavoro, nelle scuole e nelle università.

La Resistenza di ieri guida le resistenze di oggi. Per questo motivo continuiamo a impegnarci nelle assemblee cittadine e nelle mobilitazioni previste a Roma per la Palestina, come l’iniziativa volta a bloccare l’ambasciata israeliana, in occasione del Festival del Cinema di Roma.

Insieme alle numerose realtà territoriali, sociali e studentesche della zona Tiburtina, abbiamo promosso una manifestazione il 25 ottobre, in occasione dell’anniversario dell’eccidio di Pietralata del 1943 per mano dei nazisti dove furono uccisi 9 partigiani che combattevano per la liberazione.

Partiremo quindi, sventolando le bandiere palestinesi, dalla lapide per i partigiani di via del Peperino e attraverseremo i nostri quartieri toccando i punti delle nostre resistenze quotidiane, arrivando fino alla Palenco, occupazione abitativa sotto sgombero per la quale il Comune di Roma ancora non ha messo in campo alcuna soluzione per le tante famiglie che la abitano.

Ci vediamo sabato 25 ottobre alle ore 16.30 alla targa per i partigiani di via del Peperino (Pietralata), per poi attraversare insieme le strade della Tiburtina. Portate cartelli, striscioni o oggetti che raccontino le vostre resistenze quotidiane per conquistarci tutto ciò che vogliamo per una vita dignitosa nei nostri quartieri.

La nostra resistenza nelle borgate, ieri come oggi, è la stessa che ci spinge a stare, senza sé e senza ma, al fianco della Palestina. A gridare a gran voce che non vogliamo che sia speso neanche un euro per il genocidio in Palestina, vogliamo soldi per borgate, casa e servizi. A ribadire che nei nostri quartieri blocchiamo tutto, per cambiare tutto!

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