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Carcare. Casapound e l’amministrazione “apartitica”

Il caso è molto delicato e va trattato con il massimo dell’attenzione.

Succede che a Carcare, cittadina industriale della Val Bormida, l’amministrazione comunale conceda a Casa Pound l’aula magna dell’Istituto Scolastico comprensivo, per una manifestazione del movimento che possiamo ben definire come neo-fascista.

Naturalmente ci sono già state levate di scudi e proteste nel merito, alle quali non è il caso di aggiungere altro se non di segnalare come l’attivismo delle “tartarughe frecciate” almeno in provincia di Savona si stia intensificando fortemente.

Alle proteste che stigmatizzano la presenza di Casa Pound ci si deve unire non stancandosi mai di denunciare i pericoli di infiltrazione ideologica di tipo razzista.

Non è questo però il punto che s’intende toccare attraverso questo intervento.

Pare, infatti, necessario far prendere le mosse a un ragionamento serio partendo da una frase contenuta dalla dichiarazione del Sindaco di Carcare, rilasciata allo scopo di rintuzzare le proteste e giustificare la concessione a Casa Pound.

Ecco di seguito:

Questa Amministrazione, apartitica, non pone veti a nessuno, purché operi nel rispetto delle regole e della legalità”.

 A parte il richiamo alle regole e alla legalità colpisce in queste parole la definizione di “apartitica” attribuita all’Amministrazione. Una definizione evidentemente intesa quale “aggiunta di valore” per una presunta (e impossibile, è questo un punto di vera e propria mistificazione) equidistanza.

Questa dell’”amministrazione apartitica” sì che è un’affermazione pericolosa perché contiene un attacco alle strutture portanti della democrazia repubblicana.

 Proclamare un’equidistanza rispetto a un soggetto come Casa Pound non può che significare, nella sostanza altro che l’espressione di una vocazione qualunquista che posta in relazione al giuramento sulla Costituzione Repubblicana che anche il sindaco di Carcare ha svolto, finisce con il violarla ponendo sullo stesso piano il fascismo e l’antifascismo.

Questo elemento va sottolineato con forza all’attenzione di tutti.

Proclamare un’amministrazione comunale come “apartitica”, in particolare in un’occasione come questa, significa dare spazio a un’idea individualistica dell’agire politico e considerare la gestione di un Comune come un fatto meramente burocratico e non politico.

Preoccupano due cose:

1)      l’individualismo, difatti la dizione “apartitica significa in sostanza una forma di democrazia rappresentativa in cui i rappresentanti vengono eletti a titolo personale.

2)      Il tener lontano l’idea del “partito” come se si trattasse di una forma negativa dell’azione politica.

In particolare questo secondo punto del dispregio verso l’idea del “partito”, è stato alla base della degenerazione che la democrazia italiana ha subito nel corso dei due decenni precedenti.

Una degenerazione che ha avuto al centro i temi della personalizzazione, dell’individualismo, della concezione proprietaria della politica, dell’indistinguibilità rispetto ai temi dei valori portanti dell’eguaglianza e della solidarietà che stanno alla base della Costituzione Repubblicana.

Costituzione Repubblicana che, ricordiamolo per inciso, alla XII disposizione transitoria e finale fa piena professione di antifascismo, impedendo la ricostituzione di simulacri del Partito Fascista. Disposizione, del resto, poco e male applicata nel tempo per esigenze di mera tattica politica a partire dalla presenza del MSI nel quadro politico italiano.

Rammentando ancora come la Liberazione dell’Italia dall’invasione nazi-fascista fu condotta, tra il 1943 e il 1945, dal Comitato di Liberazione Nazionale formato dai sei partiti antifascisti (Partito Comunista, Partito Socialista, Democrazia Cristiana, Partito d’azione, Partito Liberale, Partito della Democrazia del Lavoro) si riporta di seguito l’articolo 49 della Costituzione che sancisce il ruolo dei partiti nella Repubblica Italiana:

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale “.

Se il 9 settembre 1943 in una casa di via Adda a Roma: Giorgio Amendola (Pci), Mauro Scoccimarro (Pci), Meuccio Ruini (Democrazia del lavoro), Alcide De Gasperi (Dc), Pietro Nenni (Psiup), Giuseppe Romita (Psiup), Ugo La Malfa (Pd’a), Sergio Fenoaltea (Pd’a), Alessandro Casati (Pli) sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi (Democrazia del Lavoro) avessero proclamato la loro equidistanza l’Italia, abbandonata dal Re e dal Governo, sarebbe rimasta completamente in balia dei nazifascisti e, successivamente, con la liberazione da parte degli alleati non avrebbe più recuperato completamente la propria possibilità di governarsi democraticamente restando (come accadde per il Giappone) sotto completa tutela.

Altro che il “sovranismo” proclamato oggi dagli eredi di chi trascinò il Paese nel conflitto più rovinoso della storia!

In tempi nei quali il qualunquismo arrivare a teorizzare la chiusura del parlamento è il caso di porsi ancora una volta un antico interrogativo: E’ possibile immaginare una democrazia senza partiti?

 La risposta d’istinto è un fermo no, perché il contatto tra cittadini e istituzioni e la loro partecipazione deve avvenire in forma collettiva e organizzata.

Lo scopo della formazione della struttura politica deve essere quella di fornire una sintesi della “domanda sociale” al fine di favorire risposte orientate all’interesse generale.

 Nelle sedi nelle quali si esercita questo dovere di scelta, è necessario allora che siano presenti tutti gli orientamenti ideali e culturali espressi nella società.

Questo proprio perché le scelte non sono mai neutre ed equidistanti dalla vita quotidiana in tutte le sue espressioni.

Una lezione da non dimenticare, salvo non preferire il “partito unico” vera culla dell’individualismo qualunquista che sfocia nel regime degli interessi corporativi, come la storia d’Italia purtroppo continua a insegnarci.

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