Parlare della base USA di camp Darby in un dibattito sulle tematiche ambientali, significa declinare la battaglia antimilitarista che portiamo avanti da 60 anni su un terreno, quello della difesa del parco di Tombolo / San Rossore – Massaciuccoli, che è inscindibilmente legato alla più generale lotta contro la guerra.
La piena coscienza di questo binomio l’abbiamo acquisita nel tempo e con un ritardo direttamente proporzionale all’arretramento del movimento contro la guerra.
Occorre quindi ringraziare chi ha pensato di inserire questo nostro intervento nell’economia di un confronto su temi precipuamente ambientali, di difesa dei parchi e delle montagne toscane.
Ricomporre la nostra riflessione su tematiche apparentemente separate deve essere uno degli obiettivi costanti del nostro lavoro. La parcellizzazione del conflitto è utile solo al nostro avversario di classe. Ciò non dovrà significare appiattire le specificità di ogni vertenza, ma dare respiro e prospettiva al nostro più generale conflitto con lo stato di cose presenti.
Il filo conduttore che lega la lotta per la difesa dell’ambiente alla più generale lotta contro il capitalismo è la contestazione della sua logica predatoria e irrazionale, che piega ogni cosa al raggiungimento del massimo profitto, come sta dimostrando platealmente nell’affrontamento della pandemia da corona virus. Milioni di vite continuano ad essere messe in pericolo sull’altare della produzione a fini di profitto.
Un modello che non può funzionare se non a detrimento della vita delle maggioranze e della biosfera. Noi lo sapevamo già, ma il covid 19 lo sta evidenziando, con estrema brutalità, agli occhi di miliardi di persone, in un contesto nel quale altri paesi, guidati da partiti comunisti e socialisti (Cuba, Venezuela, Vietnam, Kerala, Cina) dimostrano che è possibile non solo mettere sotto controllo il virus, ma anche rilanciare l’economia senza mettere in costante pericolo i lavoratori e la popolazione. Di nuovo, modelli sociali profondamente differenti si confrontano e si scontrano su temi fondamentali come il diritto alla salute e alla vita delle maggioranze.
La “spinta propulsiva” del capitalismo si è fermata, facendo tornare di estrema attualità il tema della trasformazione sociale e della Rivoluzione non come obiettivi generici ed ideologici, ma come esigenza storica per il genere umano, di fronte ai limiti oggettivi di sviluppo di un sistema predatorio che non vuole ne può fare i conti con la finitezza del pianeta e delle sue risorse.
Tornando al tema per il quale siamo stati chiamati a relazionare, la base militare di camp Darby è lo specchio esatto di questa contraddizione storica che contrappone le esigenze capitalismo nella sua fase imperialistica a quelle del genere umano e del pianeta. Per affrontare questa contraddizione irrisolvibile, l’imperialismo USA risponde adeguando i suoi assetti militari in funzione della violenta competizione internazionale in corso.
Una competizione che sta terremotando tutte le camere di compensazione create nel secondo dopoguerra per garantire l’egemonia statunitense sul mondo occidentale e, dopo il crollo del muro di Berlino, sul tutto il mondo.
La prima ad entrare in crisi è la NATO, in stato comatoso secondo recenti dichiarazioni pubbliche di Macron e dalla Merkel, con la cancelliera tedesca che torna ad evocare, per rispondere alla guerra dei dazi USA contro la UE, il macabro obiettivo teutonico di “prendere in mano il proprio destino”.
Come viene ripensata camp Darby in questo nuovo scenario bellico?
come una base logistica che razionalizza i propri spazi in funzione delle nuove forme della guerra, nelle quali più che la quantità dell’intervento diretto è sempre più importante la qualità dell’uso intensivo della tecnologia militare, con l’utilizzo di sempre minori forze armate sul campo, sostituite da droni e sistemi d’arma avanzatissimi, da bande di mercenari e gruppi terroristici delegati a svolgere il “lavoro sporco” sul terreno.
L’ISIS è stata e continua ad essere una perfetta sintesi di questa metodologia di intervento, replicata in larga scala in Siria dopo le prove generali iniziate da Bill Clinton nella ex Jugoslavia, e che progressivamente si sono trasformate in “rivoluzioni arancioni” o “dei gelsomini” o con altre fantasiose definizioni, utili a nascondere agli occhi dell’opinione pubblica mondiale gli obiettivi golpisti occidentali nei vari quadranti geopolitici, dal Medio Oriente all’Ucraina, dal Venezuela alla Bolivia.
Camp Darby in questi ultimi anni non si è ridimensionata, ma anzi è cresciuta di importanza per l’esercito statunitense, consolidando la sua posizione di più grande hub logistico fuori dai confini USA.
Per mantenere questa funzione strategica gli statunitensi si sono avvalsi, come sempre, della entusiastica copertura politica dei governi centrali e delle amministrazioni locali italiane, che in questi ultimi anni hanno dato il via libera al raddoppio del canale dei navicelli (sindaco PD Filippeschi con il placet della regione Toscana e dell’ex Sindaco M5S di Livorno), aprendo così la strada al raddoppio del sistema ferroviario interno, costato l’abbattimento di 937 alberi ad alto fusto per fare spazio alle rotaie e al futuro hangar alto 18 metri e lungo centinaia, per nascondere alla vista degli automobilisti di passaggio sull’Aurelia l’arrivo di milioni di munizioni e mezzi militari.
Il piccolo ridimensionamento dello spazio ad uso dell’esercito italiano (appena il 3% del territorio) non deve quindi trarre in inganno, ma anzi ci deve far riflettere l’occupazione da parte delle truppe speciali italiane delle zone lasciate libere dai militari americani.
Siamo di fronte ad una riconquista di sovranità nazionale sul territorio patrio oppure ad una più stretta interazione tra eserciti alleati, in una fase estremamente delicata dei rapporti tra USA e UE, che preconizza future alleanze “asimmetriche” rispetto alla transeunte configurazione NATO?
Domanda retorica, dato che a nostro giudizio essa trova una risposta nella seconda delle ipotesi che facciamo. La debolezza strutturale del nostro paese, sia in termini economici, sia di assetto istituzionale e governativo trasforma di nuovo l’Italia in una terra “contesa” tra le grandi potenze, all’interno del più generale conflitto interimperialistico in corso.
La posta in gioco continua ad essere il controllo dell’intero bacino mediterraneo, attraverso una penisola ancora saldamente in mano al complesso sistema di basi USA/NATO che occupa, da Nord a Sud, tutto il nostro paese.
A questo diktat militare USA risponde la UE con il proprio diktat economico, che passa ora dal MES e dal Recovery Found, cappi al collo ad una economia già distrutta da una borghesia nazionale tra le più retrive e parassitarie del mondo occidentale.
Che sono 937 alberi ad alto fusto per questi giochi di guerra fatti sui nostri territori e sulla nostra pelle? Niente!
Questi governanti possono essere delegati a risolvere i problemi di inquinamento del parco di Tombolo, a causa della presenza pluridecennale dell’esercito statunitense? Noi pensiamo proprio di no!
L’unica strada ce la siamo detta, e l’abbiamo praticata, in tutti questi anni: occorre gettare a mare le basi americane, chiudere le basi NATO, ridimensionare le basi militari italiane e metterle al servizio della protezione civile, tornare ad un esercito di massa al servizio delle popolazioni, abolendo l’attuale esercito professionale, al servizio invece delle multinazionali italiane sparse per il mondo, come ENI, Leonardo, ENEL eccetera.
Lottare contro la macchina bellica degli imperialismi USA e UE, battersi per la chiusura delle basi militari, significa contribuire fattivamente alla più generale battaglia per la difesa dell’ambiente, che potrà trovare una risposta effettiva solo attraverso l’abbattimento del sistema capitalistico e la costruzione di quello che noi chiamiamo “Socialismo del XXI secolo”.
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