Lo scorso sabato a Torino c’è stato forse il primo caso italiano di sciopero della “gig economy”, ossia la nuova economia del lavoro a “cottimo” (gig in inglese), possibile grazie alle nuove tecnologie. La protesta ha riguardato il settore della consegna del cibo, un ambito che come riporta un recente articolo di Wired in Italia è in piena espansione e ad oggi vale 400 milioni di euro. Numeri ottenuti anche grazie a contratti di lavoro iper precari e mal pagati, in un contesto scarsamente organizzato dal punto di vista sindacale. Un contesto favorito anche dal fatto che, come già nel caso di Uber, alle imprese basta disconnettere un lavoratore dalla app che organizza i turni per liberarsi di lui. Ma nonostante condizioni oggettivamente difficili i lavoratori stanno cominciando ad organizzarsi anche in questi settori, come si è visto nel caso di Londra.
Sabato i lavoratori di Foodora, una delle due principali aziende attive in Italia nel settore del “food delivery”, sono scesi in piazza a Torino per protestare contro le condizioni di lavoro vessatorie imposte dall’azienda. La loro protesta ha avuto molta eco sui media nazionali, e Foodora è stata costretta a convocare, ieri, un incontro con i lavoratori dopo che la pagina Facebook dell’azienda è stata presa d’assalto da commentatori inferociti che chiedevano conto all'impresa delle sue politiche contro i lavoratori. Dopo la riunione l’azienda (che aveva esplicitamente chiesto di non portare rappresentanti sindacali all’incontro) si è presa tempo fino a giovedì per rispondere alle richieste dei lavoratori.
Abbiamo intervistato uno dei rider (i consegnatori in bicicletta) scesi in piazza sabato.
Come è nato il vostro movimento di protesta?
Tutto è partito dal fatto che la manutenzione della bicicletta, il nostro mezzo di lavoro, da contratto è a carico nostro. La prima proposta è stata quella di una raccolta firme fra i lavoratori per firmare una convenzione di modo che l’azienda si facesse carico dei costi di riparazione. Ci siamo quindi rivolti ad un sindacalista della CUB, che ci ha suggerito di fare riferimento alla categoria lavorativa dei rappresentanti di commercio, che fra le altre cose ricevono un rimborso per l’usura del mezzo di trasporto.
La questione si è poi allargata al nostro contratto di lavoro. Noi abbiamo una sorta di contratto a progetto con l’azienda (per cui i lavoratori non risultano dipendenti ma “collaboratori”, ndt), ma il fatto che abbiamo degli orari concordati e un luogo di partenza per le consegne prefissato (per essere “connesso al sistema” un lavoratore deve trovarsi in una determinata piazza di Torino) per noi prova che in realtà quello con l’azienda sia un vero e proprio rapporto di lavoro dipendente. Quello che chiediamo è quindi l’abolizione di questo co.co.co e l’inquadramento in un contratto nazionale per tutti i rider e i promoter (le ragazze e i ragazzi che fanno pubblicità all’azienda, ndt).
L’attuale contratto che tipo di tutele prevede, ad esempio in caso di infortuni?
Se un lavoratore si infortuna durante il servizio di consegna è coperto in parte dall’INAIL ed in parte eventualmente dall’azienda, nel caso la copertura INAIL non basti. Ad esempio un rider è caduto e si è rotto un dente. L’INAIL e in l’azienda hanno pagato per la ricostruzione. Il problema è che la malattia non ci è pagata, per cui il ragazzo che si è rotto il dente non ha lavorato nei giorni successivi e di conseguenza non è stato pagato.
Un altro motivo di protesta è il cambiamento nella forma di retribuzione: da un pagamento fisso orario ad una misera paga a cottimo…
Sì, fino ad un mese fa tutti ricevevamo una paga oraria di 5 euro e quaranta. Poi l’azienda ha cominciato ad assumere molti nuovi rider, per (parole loro) “riciclare la flotta levando le mele marce”. Ai nuovi assunti è stato proposto un pagamento a cottimo di 2 euro e settanta a consegna. L’azienda ha sostenuto che questa forma di pagamento è migliore, perché così si possono fare più soldi, ma questo spesso non è vero e si rischia di dare la disponibilità per un’ora e guadagnare poco o niente. Per ora la nuova forma di pagamento è limitata ai nuovi iscritti, e i capi hanno cercato di limitare il malcontento mettendo i nuovi lavoratori nei turni serali (quando ci sono più ordini), mentre quelli con la paga oraria sono messi nei turni pomeridiani. Ma dal 30 novembre vorrebbero allargare il pagamento a cottimo a tutta la flotta di fattorini. Per questo un’altra delle nostre rivendicazioni è l’abolizione del cottimo e l’ottenimento di una retribuzione oraria fissa più i bonus per ciascuna consegna.
Come vi siete organizzati fino ad arrivare allo “sciopero” di sabato sera?
Inizialmente ci si parlava nei ritagli di tempo fra una consegna e l’altra, nei luoghi di ritrovo da cui si parte in quattro o cinque per andare a fare le consegne. Poi abbiamo cominciato a trovarci in maniera più organizzata, anche tramite una chat. La cosa interessante è che molti sono alla prima esperienza di lotta: a lavorare per Foodora sono spesso studenti o persone alla prima esperienza lavorativa. Per questo è stato significativo portare in piazza una cinquantina di lavoratori (su circa 200), al di là della semplice adesione allo sciopero.
Come ha reagito l’azienda e cosa farete adesso?
L’azienda ha reagito in maniera molto goffa. L’azione di sabato ha avuto molto risalto mediatico, con articoli su alcuni dei principali quotidiani italiani. Ai giornalisti che chiedevano se fossimo effettivamente pagati così poco l’azienda ha risposto che non era vero, salvo poi affermare che non poteva dare le vere cifre per ragioni di riservatezza. Contemporaneamente ha licenziato due ragazze che non lavoravano come rider ma come promoter. La loro colpa? Aver partecipato ad una delle assemblee dei rider in cui discutevamo il da farsi (il licenziamento è avvenuto tramite rimozione delle due promoter dalla applicazione tramite cui si danno le disponibilità orarie, a dimostrazione della precarietà dei contratti che offre Foodora, ndt). Per questo, oltre all’abolizione del cottimo e del co.co.co, chiediamo la cessazione definitiva dei provvedimenti disciplinari. Nel caso l’azienda oggi rifiutasse le nostro condizioni continueremo con la nostra protesta, che sta avendo una grande eco. Tieni conto che Foodora si basa sulla pubblicità, quindi per loro questa tempesta mediatica è davvero un duro colpo. Speriamo che la lotta si allarghi anche a Milano (l’unica altra città italiana in cui ad oggi è presente Foodora, ndt), dove non ci sono ancora state forme di protesta organizzate, anche per via di oggettive difficoltà logistiche dovute alla dimensione della città. Intanto consigliamo di seguirci sulla nostra pagina Facebook e di continuare a subissare i social di Foodora di messaggi di protesta.
Redazione Contropiano Torino
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