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Yemen: era un paese, ora sono due, forse tre


Roma, 11 giugno 2011, Nena News – C’era una volta un paese, nascosto tra il deserto dell’Arabia e le montagne, incastonato tra il Mar Rosso e  l’Oceano Indiano, che Pasolini descrisse come “il paese più bello del mondo”. Anticamente, era un luogo “felice” per via di tutte le ricchezze che vi transitavano. Ora si chiama Yemen, ed è insanguinato dalla guerra civile, dalle lotte tribali e, ogni tanto, dai droni americani a caccia dei miliziani di Al-Qaeda. C’era una volta un paese, ma ora sono due. O addirittura tre. E tutti e tre sono ben vigilati dall’ingombrante vicino settentrionale: l’Arabia Saudita.

Tra tutte le linee di frattura che attraversano questo paese, due sono quelle fondamentali per capirne gli assetti. In primis, la presenza degli zayditi, sciiti che risiedono nel nord dello Yemen, nella provincia di Saadah da centinaia di anni. Questa zona confina con l’Asir, provincia che l’Arabia Saudita ha strappato allo Yemen dopo una guerra di quasi 10 anni terminata nel 1934. I confini sono rimasti incerti fino al 2000, anno in cui i due paesi hanno firmato un accordo. Ed è anche la zona dove recentemente sono stati trovati dei giacimenti di petrolio.

Il destino ha voluto che, una volta tracciata la linea di confine tra Arabia Saudita e Yemen, gli zayditi si trovassero a diventare i dirimpettai dei loro opposti: i wahhabiti, i più integralisti tra i sunniti. “Riyadh teme le rivolte sciite ai suoi confini –spiega il professor Martufi- perché le sue coste orientali ricche di petrolio sono popolate da questa minoranza  emarginata dagli al-Sa’ud, e inteviene per fermare la presunta avanzata iraniana in tutta la penisola arabica”. Basti pensare al caso del Bahrein, dove una maggioranza sciita è governata da una minoranza sunnita: al primo vento di sollevazione, nel gennaio scorso, Riyadh ha risposto con i carri armati. E anche le rivolte degli zayditi dello Yemen contro il governo centrale, portate avanti dalla confederazione tribale degli Houthi dal 2004, sono state soffocate dall’ Arabia Saudita nel 2010 con l’artiglieria pesante. Dove c’è lo sciita c’è la mano dell’Iran, secondo i sauditi.

La capitale yemenita Sanaa

Ma nella regione di Saadah è presente un’altra grande confederazione tribale zaydita, gli Hashed, da cui proviene il presidente e che ha sempre appoggiato il governo. “Secondo un giornalista americano- continua Martufi-  nel decennio scorso i sauditi avrebbero pagato gli Hashed perché combattessero gli Houthi, ma le due confederazioni, storicamente e socialmente molto vicine, si sarebbero spartite il denaro fingendo di guerreggiare. Non è un caso che gli Hashed abbiano abbandonato Saleh ad aprile, nel momento in cui il Consiglio di Cooperazione del Golfo, e la sua protagonista l’Arabia Saudita, chiedevano ripetutamente al presidente yemenita di farsi da parte”.

Seconda fonte di tensione interna è quella delle due parti che compongono oggi la repubblica dello Yemen.  Nel corso del XX secolo l’assetto del paese è cambiato ripetutamente. Dall’antico imamato zaydita dell’800, si è passati al governo ottomano fino al 1918. Nei successivi 40 anni c’è stato il regno dell’imam Yahya al nord e un protettorato britannico al sud, da Aden a est. Nel 1962 si costituì la Repubblica araba dello Yemen al nord, con capitale Sanaa, e nel 1967 il sud ottenne l’indipendenza, istituendosi come primo stato socialista del mondo arabo. Ricorda il professore: “Agli inizi degli anni 70, quando si cominciò a parlare di una possibile unificazione dei due Yemen, l’Arabia Saudita agì in modo da creare un conflitto tra le due parti innescando una guerra con migliaia di morti. Con il crollo dell’Unione sovietica, i due stati si unirono nel 1990 e adottarono una costituzione che però non contemplava la Sharia. Le forze politiche islamiste, notoriamente il partito al-Islah, la boicottarono, e il sud proclamò la secessione stimolata dall’Arabia Saudita, per la quale l’unità dello Yemen era mal vista”.  Seguì una nuova guerra civile e il sud rimase dov’era. “Saleh –continua Martufi- modificò la Costituzione, inserendo la Sharia. Divenne il presidente- padrone che veniva eletto con il 96,3% dei voti e che metteva una serie di familiari a capo delle forze militari e dell’apparato di polizia”.

Il presidente Ali Abdallah Saleh

E poi c’è al-Qaeda.  I voli dei droni statunitensi nello Yemen  contro obiettivi terroristici sono cominciati nel 2002, e hanno centrato obiettivi qaedisti come zayditi. Perché al-Qaeda è sparsa in diverse province del paese e non concentrata in un unico territorio, e ogni manifestazione di islamismo è scambiata per terrorismo di matrice qaedista. “Nel 2009 un bombardamento americano in una zona di ribelli zayditi  provocò decine di vittime. I governanti locali protestarono, e  si organizzò un incontro tra Saleh e Petraeus. Il generale spiegò al presidente che erano stati uccisi solo alcuni familiari di un qaedista. E Saleh affossò tutto, dicendo che le bombe che avevano colpito i civili erano yemenite”. Ora che il presidente è ferito e c’è un vuoto di potere, gli Stati Uniti ricominciano a intervenire con i droni per spazzare via da soli le manifestazioni di islamismo, com’è accaduto due giorni fa a Zinjibar.  Dove c’è islamismo c’è al-Qaeda, secondo Washington.

Oggi lo Yemen è uno stato unitario sulla carta, ma diviso su tutti i fronti. A livello storico, religioso, politico e sociale. Il governo ha trascurato gli zayditi del nord che hanno cominciato a ribellarsi nel decennio scorso. Trascura anche il sud, composto in maggioranza da operai dei cantieri marittimi, impoverito dalla crisi dei traffici, dalla pirateria e dallo stallo dell’economia.  “Non è un caso- ricorda Martufi- che proprio in questa parte del paese Saleh abbia vinto in misura minore le elezioni del 2003 e che sia iniziato un dialogo tra socialisti e islamisti”.

Ora che Saleh è stato ferito e si è scoperto che è stato a causa di una bomba piazzata nel palazzo e non di un missile lanciato da Sadeq al-Ahmar, capo degli Hashed, si pensa ad un complotto ben orchestrato. Il caso vuole che il presidente sia stato trasportato in Arabia Saudita, che intanto pensa a un candidato per la “rapida transizione di potere” auspicata dagli Stati Uniti. Poco importa che sia democratica o meno.  “Sarebbe difficile attuare una transizione democratica -conclude il professor Martufi- perché metterebbe in gioco troppe forze in conflitto. Vedo un evoluzione negativa, se non una potenziale rottura tra nord e sud. Ma tanto Stati Uniti e Arabia Saudita una soluzione la troveranno”.

 

da www.nenanews.com

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