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Politici in punto di morte

Non ci resta che far loro i nostri complimenti. Ci hanno messo soltanto un anno, a capirlo. Mentre appaiono invece stranamente reticenti sul fatto che questa “invasione” è avvenuta anche grazie al loro entusiastico apporto.

Parliamo di Bersani e Grillo, in queste ore inferociti per le manovre sulla legge elettorale. E consigliamo tutti di tenerli ben distinti, perché sollevano problemi diversi, ma convergenti nell’escluderli come potenziali “uomini del destino” in questo paese. C’è Monti, che basta e avanza…

L’ex comico genovese pone un problema quasi costituzionale: nel 2003, la Commissione europea avrebbe stabilito che le regole elettorali “non devono poter essere modificate nell’anno che precede l’elezione, altrimenti queste ultime dovrebbero essere legittimate a livello costituzionale o comunque a un livello superiore rispetto alle leggi ordinarie”. Indipendentemente dal fatto che esista o meno una meta-regola del genere, è indubbio che cambiare la legge elettorale a quattro mesi dal voto sa molto di “legislazione ad hoc”. Della serie: vedo i sondaggi e faccio la legge che torna più utile.

A chi? In questo caso all’establishment “europeo”, figlio di troika, che non può tollerare un vuoto parlamentare rispetto ai propri “comandamenti”. Nessuno dei primattori della politica italiana attuale – né Bersani col Pd ex socialdemocratico, né il Pdl orfano del populista Berlusconi, e tantomeno i populisti de tempo presente (Grillo, Lega, qualche buontempone nel Pdl) – può garantire una stabilità duratura mentre si vanno applicando le disposizioni emanate da Bruxelles. Il “monti-bis”, in questo scenario, è l’unica soluzione possibile. Quindi serve una legge elettorale che, a sondaggi presenti, garantisca la “non vittoria” di tutti. Soprattutto di chi si presenta come “antisistema”. È persino logico. Un governo “tecnico” si può imporre solo se uno “politico” si rivela impossibile.

Bersani, al contrario, protesta perché la soluzione Casini-Rutelli – con “premio di maggioranza” che scatta soltanto oltre il 42,5% – impedisce al “suo” Pd di fare “l’azionista di riferimento” di un governo politico, ancorché sotto la cappella della troika. Non c’è insomma un’obiezione di fondo, ma solo “tattica”. Le regole per lui possono essere cambiate anche in corso d’opera, ma non dovrebbero danneggiarlo. Miseria della “governabilità”, una volta che la partita non esiste più. Come si diceva anche un anno fa, il prossimo “programma di governo” c’è già. È quello dell’Europa, chiunque sieda a palazzo Chigi. La lamentela di Bersani è quella dell’attore che sperava nella parte di protagonista, mentre gli viene assegnata quella di comprimario.
Per entrambi stanno squillando le trombe del’Averno. Il loro contemporaneo successo segnerà nelo stesso momento l'”ingovernabilità” nelle forme che conosciamo. E non crediamo che Bersani, al contrario di quel che oggi ha minacciato, abbia davvero in animo di rovesciare il tavolo portando il paese – in caso di “parità strategica” – a nuove elezioni immediate. Lo spread gli verrebbe addebitato come neanche a Berlusconi…

C’è un assente, in questa partita. Ed è l’autonomia politica e di mobilitazione della classe. Il 27 ottobre ha dato il primo vagito concreto. Speriamo nel secondo, già da questa settimana, con la mobilitazione europea del 14 novembre.

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