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Se sarà guerra, l’Italia che fa?

La domanda è perentoria, pesante come un macigno, ma inevitabile in questi giorni in cui la guerra si palesa nuovamente tra gli scenari possibili di questo secondo decennio del XXI Secolo.

Solo i miopi o gli stolti possono pensare che quanto si va addensando nel lontano (Iran) e vicino (Libia) Oriente non ci entrerà come un tornado dentro casa e non segnerà profondamente la nostra vita quotidiana.

Ma, se questi sono gli scenari, abbiamo il diritto e il dovere di entrare in campo per impedire che una classe dirigente inetta e servile si renda complice o trascini il paese nella guerra. E questa volta non si tratterà di inviare un po’ di truppe in missioni militari all’estero, per mostrare la bandiera e pagare una cambiale minima ad alleanze e trattati militari vincolanti ed appartenenti ad un altro secolo.

Il governo, questo, quelli del passato e quelli del futuro, vanno costretti a prendere decisioni che non hanno voluto o vorranno mai prendere.

Innanzitutto ritirare le truppe italiane ancora presenti sui fronti di guerra. In nome di quali interessi, di chi e che cosa ci sono ancora soldati italiani in Iraq, Afghanistan, Libano, Golfo Persico, Libia? Possiamo ancora accettare missioni militari in ambito Nato o di coalizioni fittizie che affiancano politicamente e militarmente gli Stati Uniti?

Il governo Conte, nonostante la mozione del parlamento iracheno che ne chiede il ritiro, ha riaffermato che i militari italiani restano in Iraq. A che titolo a questo punto?

In secondo luogo, il governo italiano ha smentito che il drone assassino che ha ucciso un generale iraniano e un ufficiale delle milizie irachene sia partito dalla base di Sigonella. Ma è dominio pubblico che da quella base partono i droni che vanno a colpire obiettivi in tutto il Medio Oriente. Lo è altrettanto il fatto che le truppe statunitensi che vanno e vengono da quella regione sono stanziate nella base Usa di Vicenza, che la logistica delle guerre statunitensi abbia un hub fondamentale nella base di Camp Darby.

Infine ci sono già 80 bombe atomiche Usa nelle basi militari di Ghedi ed Aviano e nessuno finora ha smentito che in quest’ultima verranno stoccate altre 50 bombe atomiche che saranno tolte dalla basi Usa in Turchia.

Il trattato della Nato e quello bilaterale Italia/Usa, ancora più vincolante e secretato, costringono il nostro paese ad ospitare decine di basi militari Usa e Nato da nord a sud. In nome di quale minaccia e contro quali nemici, nel XXI Secolo?

Alla luce di quanto accaduto dalla dissoluzione del blocco socialista nell’Europa dell’est, le minacce alla sicurezza collettiva del paese sono venute più dall’avventurismo bellicista statunitense, che ci ha trascinato nelle guerre in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, che da altri soggetti. E’ un dato di fatto.

La cosiddetta e indefinita “minaccia terroristica” non è affatto proporzionata alla massiccia presenza di basi militari Usa/Nato nel nostro paese. Al contrario, è semmai proprio tale presenza a renderlo un obiettivo possibile di ritorsioni e attacchi.

In terzo luogo nessuno obbliga l’Italia a confermare l’acquisto di altri cacciabombardieri statunitensi F 35, dal costo miliardario.

Se gli Usa intendono trascinare, direttamente o indirettamente, i propri “alleati” in una nuova guerra in Medio Oriente, cosa dovrebbe fare il governo italiano? Ritiro delle truppe all’estero, negazione delle basi militari per operazioni aggressive statunitensi contro altri paesi e popoli, allontanamento delle bombe atomiche stoccate in Italia e stop all’acquisto degli F35, sono scelte alla portata di qualsiasi governo, anche di uno modesto e solo attento agli “interessi nazionali”.

Il governo che auspichiamo e per il quale ci battiamo sarebbe invece chiamato a scelte ancora più lungimiranti: uscita dalla Nato, smantellamento delle basi militari straniere, politica estera di neutralità e non allineamento. Il che  significherebbe anche una messa in mora dalle ambizioni di un esercito e di una “militarizzazione di stampo europeo”, sostitutiva della Nato, come chiede la Francia di Macròn.

Nel XXI Secolo, chi parla ancora di “ombrelli protettivi” o di “passaggi di campo” (dalla subalternità agli Usa alla subalternità verso l’Unione Europea), sa bene di acconciare uno schema geopolitico appartenente ormai a fasi storiche superate e di riaffermare un pensiero subalterno agli imperialismi in competizione a livello globale.

Cosa abbiamo invece di fronte?

Un governo che balbetta di “moderazione” mentre gli Stati Uniti in Medio Oriente e la Turchia in Libia hanno già messo tutti di fronte al fatto compiuto.

Che mantiene le truppe in Iraq nonostante queste vengano ormai percepite come “entità ostile”. Che lascia gli armamenti nucleari e convenzionali, le truppe e la logistica militare statunitense, transitare e partire liberamente dalle basi militari installate da settanta anni nel nostro paese senza battere ciglio. Che acquista armamenti inutili come gli F35 solo per onorare la cambiale di patti militari desueti e ormai controproducenti.

Specularmente, la destra all'”opposizione” non sa fare altro che allinearsi all’avventurismo guerrafondaio di Trump e Israele, accettando i medesimi vincoli. Un servilismo del tutto analogo – solo ancora più becero – a quello del governo in carica.

Questo atteggiamento, perfettamente in continuità con i governi precedenti – di centro-destra e centro-sinistra senza alcuna differenza tra loro – è esattamente quello che trascinerà il nostro paese dentro le possibili guerre del prossimo futuro, esponendolo a tutte le loro conseguenze.

Sul piano della credibilità internazionale, una posizione come questa è suicida e già lo stiamo vedendo in Libia.

Sul piano delle prospettive è ancor più suicida, perché espone il paese alla guerra e lo mantiene in uno stato di servilismo che lo priva di ogni possibilità di essere soggetto negoziale neutrale e credibile. Questa credibilità non può darla neanche l’internità all’Unione Europea, che si sta dimostrando ancora inadeguata a svolgere una funzione propria nei teatri di crisi e di guerra che si vanno delineando. Il fallimento della ipotizzata “missione dell’Unione Europea in Libia” è lì a dimostrarlo.

Nei prossimi giorni, settimane, mesi saremo chiamati a dare una risposta politica e nelle piazze contro i rischi di una o più guerre alle porte di casa.

Ma il primo presupposto sarà quello di impedire con ogni mezzo che l’Italia se ne renda complice, direttamente o indirettamente, per scelta, per inettitudine o per opportunismo del suo governo.

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